FERMENTI CATTOLICI VIVI

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Posts Tagged ‘croce’

«Non togliete quel Crocifisso!»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 07/10/2019

Non è la richiesta accorata di un prete o di un blogger cattolico ma il grido di una scrittrice che ho tanto amato in gioventù: Natalia Ginzburg, di religione ebraica ma che si professava atea, scrisse per L’Unità un articolo sul crocefisso che merita, oggi, di essere riletto.

Non togliete quel Crocefisso

«Il crocifisso non genera nessuna discriminazione.Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea di uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo?

Sono quasi duemila anni che diciamo “prima di Cristo” e “dopo Cristo”. O vogliamo smettere di dire così?

Il crocifisso è simbolo del dolore umano. La corona di spine, i chiodi evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino.

Il crocifisso fa parte della storia del mondo.

Per i cattolici, Gesù Cristo è il Figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo cancella l’idea di Dio, ma conserva l’idea del prossimo.

Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c’è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei, neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà tra gli uomini.

Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto di portare sulle spalle il peso di una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l’idea della croce nel nostro pensiero. Alcune parole di Cristo le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente.

Ha detto “ama il prossimo come te stesso”. Erano parole già scritte nell’Antico Testamento, ma sono diventate il fondamento della rivoluzione cristiana. Sono la chiave di tutto. Il crocifisso fa parte della storia del mondo.»

L’Unità 22 marzo 1988

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«Malattia e debolezza possono essere le righe su cui Dio scrive il suo Vangelo»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 05/08/2017

Vi presento Anna Schäffer.

Anna Schäffer, bavarese che visse a cavallo tra l’800 e il ‘900, aveva il grande desiderio di farsi missionaria ma un grave incidente la costrinse a letto per molti anni. Nonostante ciò fu sempre pronta a offrire ascolto e a pregare per gli altri. Nel beatificarla, nel 1999, Giovanni Paolo II disse che “malattia e debolezza possono essere le righe su cui Dio scrive il suo Vangelo”. Il 21 ottobre 2012, Benedetto XVI l’ha canonizzata in Piazza San Pietro.

Della sua spiritualità, Benedetta Capelli ha parlato con il postulatore della sua causa, Andrea Ambrosi:

R. – Dobbiamo sempre pensare che era una laica, che ha trascorso gran parte della sua breve vita a letto tra grandi sofferenze a seguito di un incidente occorsole quando aveva poco più di 15 anni. Quindi, da quel momento, per più di 20 anni è vissuta tra queste sofferenze, ringraziando il Signore di tutto quello che le mandava.

Costituisce, quindi, per noi laici un richiamo ad accettare la missione che Gesù ha stabilito per ciascuno, fosse anche quella di abbracciare in un atteggiamento di umiltà la più dura delle croci.

La vita ci riserva sempre tante sorprese e noi siamo portati sempre al pessimismo, invece lei ci insegna che con l’aiuto di Gesù possiamo sempre trasformare le cose infauste che tutti i giorni ci capitano in momenti di gioia, se li vediamo sempre finalizzati all’incontro con Gesù.

D. – Voleva diventare tanto una missionaria. La sua vita purtroppo andò in un’altra direzione, ma in un certo senso fu allo stesso tempo anche una missionaria…

R. – Sì, dal suo letto di sofferenze ha sempre guardato al punto che per lei era centrale, quello di diventare missionaria. Ma missionaria lo è diventata, perché presso di lei affluiva – dato che la fama di santità ha cominciato a circondarla da giovane – tanta, tanta gente.

Lei riceveva tutte queste persone e parlava loro in un modo che sembrava molto strano per una giovane contadina non istruita. Poi, nel suo ricchissimo epistolario fatto di centinaia di lettere, che scriveva un po’ a tutti, parlava sempre della diffusione dell’amore di Gesù e quindi delle missioni.

D. – Si parla spesso dei sogni di Anna Schäffer. Di che si tratta?

R. – Sì, lei sognava e vedeva quello che poi le sarebbe accaduto. Quindi, attraverso questi sogni lei ha purificato il suo animo fino ad entrare in uno stato di particolare unione con il Signore.

La gente si accorgeva di come lei fosse veramente in unione con il Signore, anche dal suo viso che era l’unica parte del corpo che sorrideva ed era felice, mentre il resto era tutto una ferita. Quindi, si capiva questa unione che aveva con Dio.

D. – Anna morì nel 1925. Ad oggi è una figura conosciuta, soprattutto in Germania?

R. – Sì, è molto conosciuta naturalmente nella diocesi di Ratisbona e in tutta la Baviera. Molti pellegrini vengono anche da Paesi vicini, specialmente dall’Austria e dalla Svizzera.

Si è già visto quando è stata dichiarata beata, nel marzo del ’99, che è venuta molta, molta gente per questa umilissima giovane, che ha vissuto davvero una vita di tanta sofferenza.

D. – C’è una definizione che le piace associare ad Anna Schäffer ?

R. – La sua conformità alla volontà di Dio, che era abituale in lei.

(Fonte: http://it.radiovaticana.va/storico/2012/10/20/domani_la_canonizzazione_di_anna_sch%C3%A4ffer_la_malattia_come_via_per_ab/it1-631487)

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«Tendiamo una mano verso Dio e l’altra verso il prossimo: siamo cruciformi»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 17/06/2017

Vi presento Catherine de Hueck-Doherty.

Nata a Nizhny-Novgorod in Russia, il 15 agosto 1896, da genitori ricchi e profondamente cristiani, cresce in una famiglia aristocratica e devoto profondamente convinta che Cristo si incontra nei poveri e che la vita ordinaria è fonte di santità. All’età di 15 anni, sposa suo cugino, Boris de Hueck.

La rivoluzione russa distrugge il suo mondo. Membri della sua famiglia vi perdono la vita. Sfuggono essi stessi alla morte. La rivoluzione segna molto la vita di Catherine. Vede in questa la conseguenza tragica di una società detta cristiana ma incapace di vivere secondo la sua fede. Durante tutta la sua vita si ergerà contro l’ipocrisia di quelli che pretendono di seguire Cristo e mancano al loro dovere di cristiani respingendolo negli altri.

Diventatati profughi, Catherine e Boris fuggono inizialmente verso l’Inghilterra. Nel 1921, partono per il Canada. Nel corso degli anni successivi, Catherine vivrà nella più grande povertà sostenendo alla meno peggio un marito malato ed un giovane bambino nato nel frattempo. Dopo anni di difficoltà coniugali, il suo matrimonio con Boris crolla. Quest’unione sarà annullata dalla Chiesa.

Il talento d’oratore di Catherine è presto scoperto da un’agenzia di conferenze. Percorrerà allora l’America del Nord e diventerà conferenziere di reputazione. Ma, benché abbia infine trovato la libertà finanziaria, il suo cuore non è in pace. Sente incessantemente queste parole di Gesù: «Vedi tutto ciò che possiedi e seguimi.» Il 15 ottobre 1930, Catherine decide di rinnovare una promessa fatta a Dio durante i tumulti della rivoluzione e gli dedica la vita diventando apostolo laico al servizio dei poveri.

Allora, la nozione di apostolato laico è poco conosciuta. Animata dalla convinzione di insegnare il vangelo con la sua vita, Catherine cerca la sua via. Più mette in pratica la vita evangelica, più giovani la seguono. Formano insieme Friendship House e vivono conformemente alla spiritualità di San Francesco. Opereranno in piena crisi economica assistendo i più bisognosi.

Incomprensioni e calunnie assilleranno Catherine sino alla dissoluzione del gruppo.

Poco tempo dopo ciò, il gesuita John LaFarge, capo d’archivio del movimento dei diritti civici negli Stati Uniti, la inviterà a fondare nuovamente Friendship House a Harlem. Nel febbraio 1938, accetta il suo invito. Friendship House di Harlem è rapidamente brulicante di attività. Catherine vi scopre la dignità del popolo nero ed è sconvolta dalle ingiustizie di cui è vittima. Percorrerà il paese per denunciare il razzismo al riguardo dei neri.

L’opera, tra molte difficoltà, continua e si espande cambiando nome in Madonna House. Nell’ottobre 1951, Catherine si reca a Roma per partecipare al primo congresso sul laicato. Il segretario papale, Mons. Montini, e futuro papa Paolo VI, incoraggia Catherine ed i suoi collaboratori a prevedere un impegno permanente.

Il 7 aprile 1954, coloro che vivono a Madonna House decidono di assumere un impegno permanente e fare promessa di povertà, castità ed obbedienza. È pertanto fondata la Comunità di Madonna House.

La visione di Catherine include di tutto. Nulla è straniero all’apostolato, eccetto il peccato (…). la norma prima dello apostolato è di amarsi reciprocamente (…). se rispettiamo la legge dell’amore e se comprendiamo quest’amore, noi diventeremo luce per il mondo, dichiara, poiché la benzina del nostro apostolato è l’amore.” L’amore che abbiamo per Dio irradierà sugli altri.

Catherine offre, come soluzione alle sfide del mondo occidentale, le nozioni spirituali della sua Russia d’origine. Introduce in America del Nord l’idea di poustinia, parola russa che significa «deserto». Questo concetto, completamente sconosciuto nell’occidente degli anni 60. Poustinia del punto di vista spirituale, è il luogo di riunione con Dio nella solitudine, la preghiera ed il digiuno. La visione di Catherine così come la sua applicazione del vangelo nella vita quotidiana diventeranno rimedi agli effetti disumanizzanti della tecnologia moderna. Allo scopo di ricambiare l’aumento di individualismo che caratterizza il XXo secolo, esorta Madonna House al Sobornost, un altro concetto russo che vuole dire unità profonda del cuore e dello spirito nella Trinità santa; un’unità che supera l’intendimento umano.

Il 14 dicembre 1985, al termine di una lunga malattia, Catherine de Hueck Doherty muore. Lascia in eredità una famiglia spirituale di 200 membri e delle fondazioni ovunque nel mondo.

Alcune sue citazioni:

Signore dona pane agli affamati ed affamati a coloro che hanno pane.

Siamo così indaffarati in questo tempo…. Più velocemente, più veloce, più velocemente – siamo noi. Non sappiamo se stiamo andando in avanti,indietro o in quale senso. siamo così…, vivendo in un mondo che va tutto intorno a noi – più egoista, più gretto, più orribile di prima. Più velocemente, più veloce, più veloce va. Ma Cristo ha detto, «sono venuto a servire» (Mt 20:28) e così dovremmo noi.

Tendiamo una mano verso Dio e l’altra verso il prossimo. Siamo cruciformi. La croce di Cristo sarà la nostra rivoluzione, e questa rivoluzione sarà fondata sull’amore

Siamo chiamati ad incarnare Gesù nelle nostre vite, a vestire le nostre vite di Lui, in modo che gli uomini possono vederlo in noi, toccarlo, riconoscerlo.

[Fonte: http://puntocuore.org/Jules-Monchanin.html]

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“Questa chiave si chiama Gesù Cristo!”

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 17/02/2016

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Max Daithendey

Lo scrittore bavarese Max Daithendey, era sposato con una svedese. Ambedue erano straordinariamente eruditi. Per il resto, nessuno dei due credeva in Dio, né all’esistenza dell’anima o della vita eterna.

Entrambi però cercavano, senza interruzione, delle risposte ad alcuni assillanti “quesiti” esistenziali. Da dove veniamo noi? Perché viviamo su questa terra? Che senso ha la nostra vita e che cosa ci attende dopo la nostra morte?

I loro cuori erano vuoti e irrequieti.

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale sorprese Max in Indonesia, dove egli anche morì, nel 1918. Dopo la sua morte venne ritrovata tra le sue cose, una lettera dall’Europa, che gli era stata scritta da sua moglie, lì rimasta intrappolata dalla guerra.

Mio caro Max! Noi abbiamo cercato insieme e dappertutto quella formula, con la quale risolvere i problemi della vita e della morte, senza riuscire a trovarla da nessuna parte!

Spesso abbiamo creduto e sperato che la moderna filosofia e la scienza potessero farci trovare la “formula” o la “chiave” di essa.

Nel frattempo io l’ho trovata! Questa “chiave” si chiama Gesù Cristo!

Egli risolve tutti i problemi legati alla vita e alla morte, al bene e al male, la verità e la menzogna, il tempo finito e l’eternità e tutto questo mediante il “suo” Vangelo!

Per questo, caro Max, leggi con costanza e vera devozione le Sacre Scritture e resta fermamente ancorato a ciò che Gesù ha detto“.

Quello scrittore ascoltò ciò che la moglie gli raccomandava e già un anno dopo morì, nella pace, tenendo un crocefisso nella mano.

(Fonte: “Esempi di vita cristiana” di Padre Petar Ljubcic, Edizioni OCD, pag. 92 e 93)

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Prego affinché Dio mi lasci la forza che oggi ho per portarla questa Croce perché ormai so che è mia…

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 08/12/2014

Giusy Versace non è solo la vincitrice di Ballando con le stelle 2014 ma una donna dietro al cui coraggio c’è una fede profonda, una donna che oggi è di ispirazione per molti che vivono sfide e sofferenze.

La sua storia a TV2000

Stare a Lourdes è stato intanto un primo passo perché avevo promesso che sarei andata lì a ringraziare, ed è stato lì anche che ho trovato le risposte alle tante domande che spesso mi facevo e che oggi quasi non mi faccio più.

La prima cosa che ho detto è stata grazie!

Perché a me? Perché mi hai mandato questa Croce? – Come se qualcuno all’orecchio mi girasse la domanda… – Perché non a te?

Ho imparato a non chiedermi più – perché a me – ho capito che non sono migliore degli altri. Le mie preghiere sono diverse. Prego affinché Dio mi lasci la forza che oggi ho per portarla questa Croce perché ormai so che è mia…

Grazie Giusy perché ci insegni che, con l’aiuto di Dio, per le mani di Maria sua Madre, si può portare la Croce, con un gran sorriso…

Per conoscere la ONLUS nata da un’idea di Giusy, e le sue attività, clicca su ONLUS DISABILI NO LIMITS

 

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La buona battaglia

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 08/11/2013

Ho appena finito di leggere un libro.

Uno di quei libri che non trovi facilmente nelle librerie, anzi, non lo trovi affatto, purtroppo. Si intitola “La buona battaglia” ed è stato scritto da Susanna Bo, un’illustre sconosciuta che, man mano che leggevo, mi convinceva sempre di più di ciò che scriveva in modo chiaro, vero, migliore, molto migliore di quello di molti best-sellers di oggi.

E’ uno di quei libri che lasciano il segno…

All’inizio mi ha incuriosito perché lo stava leggendo una cara amica e collega, su consiglio di un sacerdote alle cui catechesi ci siamo nutriti entrambi, il mitico don Fabio Rosini dei Dieci Comandamenti.

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Rosa, così si chiama la mia collega, ogni mattina mi raccontava entusiasta un passo che l’aveva particolarmente colpita del libro, un libro che aveva fatto ridere e poi piangere e in alcuni momenti ridere e piangere allo stesso tempo molti lettori, e che ne rimaneva così sconvolta ed edificata da volerne regalare diverse copie ai suoi amici.

Ne prendi una anche per me? – è stata la mia richiesta, e dopo pochi giorni tornando dalle ferie, una copia di “LA BUONA BATTAGLIA” troneggiava sulla mia scrivania in attesa di essere letta..

E ha dovuto aspettare un paio di mesi, i due mesi più intensi dell’anno, trascorsi nel tentativo di gestire l’Alzheimer galoppante di mia zia, tra i doveri di marito, padre, lavoratore, che nel frattempo continuavano a frullarmi nel minipimer quotidiano della mia vita

Dio parla attraverso i canali più disparati, anche attraverso un libro, un libro denso, di una donna di fede che racconta suo marito, la sua malattia e morte, nella battaglia quotidiana tra la propria umanità e la necessità di affidare e affidarsi veramente del tutto a Dio.

Avendo assistito prima mia madre, poi mio padre morenti e in questo periodo mia zia con una forma avanzata di Alzheimer, ho finito con l’identificarmi con le dinamiche dell’autrice, e Dio solo sa quanto mi è stata utile, e quanto mi è utile, per vivere la sfida della sofferenza, nella fede.

Oggi, gironzolando per la rete ho scoperto che Susi (non la conosco personalmente ma dopo aver letto la sua storia non riuscirei mai a chiamarla Su-san-na-Bo) ha un blog: www.susannabo.it

Lascio a lei la parola perché più scrivo e più mi rendo conto che non riuscirei mai a dire ciò che lei scrive e nel modo in cui solo lei sa scrivere.

Susanna01Una volta ho letto che uno scrittore è una persona che scrive perché ha qualcosa da dire, altrimenti è solo un tizio che scrive per dire qualcosa.

Dev’essere per questo motivo che ho campato tranquillamente fino a 31 anni senza mai avvertire il bisogno sfrenato di darmi alla letteratura; essendo fra l’altro ligure, il risparmiare carta e inchiostro nella coscienza di non avere alcuna storia da raccontare mi è sempre sembrata una scelta quanto mai ovvia (si sa che noi liguri diamo un certo valore alla parola “risparmio”).

Poi, per la disgrazia di chi mi vive accanto, quella storia (vera) da raccontare è arrivata. L’ho intitolata “La buona battaglia”, nella speranza che San Paolo non mi chieda mai i diritti d’autore sul titolo. E di tutto quello che dirò da adesso con l’unico scopo di farmi pubblicità e di spingervi a comprare il mio libro, posso assicuravi che almeno una cosa è vera: è stato impossibile non scriverlo.

02corpotempiodellospiritoMi rendo perfettamente conto che non aver dato alla luce questo libro forse non sarebbe stata una perdita per l’umanità. Ma probabilmente lo sarebbe stata per due sue rappresentanti che rispondono al nome di Anna e Rachele, le figlie del protagonista maschile (e dell’autrice della storia, vabbè, dai diciamolo: alla fine ho ceduto alla tentazione del romanzo autobiografico).

Perché Anna e Rachele, senza “La buona battaglia”, forse non avrebbero mai saputo davvero chi era il loro papà; quali erano i suoi gusti, le sue passioni, i suoi difetti, perché diceva sempre che tutti gli ingegneri sono degli emeriti imbecilli pur essendo anche lui uno di loro; e soprattutto come avesse potuto, a 33 anni, morire di tumore senza maledire Dio, la vita o il destino infausto, ma riuscendo sempre, e nonostante tutto, a guardare oltre: a quella Speranza che non delude – quella di cui tutti, credenti e non credenti, abbiamo bisogno – non sottraendosi a quella “buona battaglia” della fede che dà sale alla vita, anche quando questa sembra farsi matrigna.

Bè, perdonatemi se la mia presentazione vi risulterà più che altro un messaggio promozionale per il libro sconosciuto di un’esordiente sconosciuta pubblicata da una casa editrice semi-sconosciuta (Edizioni Chirico, di Napoli). Ma, vedendo quanto ho amato scrivere questa storia, mi è venuto da chiedermi se, per caso, qualcuno prima o poi non avrebbe amato leggerla. Magari mi sono sbagliata. O magari no. (www.susannabo.it)

Io direi che non si è per niente sbagliata…

E voi?

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