FERMENTI CATTOLICI VIVI

"Andate controcorrente. Di quanti messaggi, soprattutto attraverso i mass media, voi siete destinatari! Siate vigilanti! Siate critici!" Benedetto XVI

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Posts Tagged ‘missioni’

«La mia vita si stava spegnendo e ho gridato a Dio: se ci sei salvami!»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 07/04/2021

Suor Paola Datta, missionaria in Liberia, racconta il suo incontro con Dio.

«Anche se sei caduto nel fango, c’è sempre quel diamante da togliere dal fango.»

«Mi sono sentita infinitamente amata!»

«Ringrazio tanto per il dono dell’amicizia in comunità. perché è l’amicizia vera, non è quella che ti dice – prendi l’antidepressivo che ti passa – ma che ti dice – Ok, proviamo a ricostruire insieme la tua vita. E quello che ha risolto in me è la preghiera, mettersi in ginocchio davanti a Dio Creatore.»

«La vita quando non si riferisce a un Creatore è orfana, sei abbandonato, sei solo, sei vuoto. Io ringrazio perché mi hanno detto – adesso prova a pregare.»

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«Siamo arrivate il 24 dicembre 2011, c’erano 30 gradi sotto zero. Ho subito capito che era lì che dovevo essere»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 24/10/2020

Storia di un monastero oltre il circolo polare artico.

Lannavaara, cento abitanti nella Lapponia svedese, 250 chilometri oltre il Circolo polare artico. Da due anni suor Amada e suor Karla vivono qui per pregare, nel silenzio di questo “deserto”. «Presto saremo tre, perché una nuova sorella sta per arrivare dalla Norvegia», è la prima cosa che racconta entusiasta Amada Mobergh, svedese, 56 anni.

Una storia carica di amore per Dio, scoperto a vent’anni. «Sono una convertita, cresciuta a Stoccolma, una vita estremamente secolarizzata. Quando ho trovato Gesù ho anche scoperto la mia vocazione». Nei trent’anni vissuti nel Regno Unito, nella congregazione delle Missionarie della carità, il desiderio di una vita più contemplativa diventa irresistibile. «Avevo molta paura ed ero triste perché amavo la mia congregazione, ero grata per tutti gli anni vissuti insieme. Ma dovevo capire se quel desiderio fosse volontà di Dio, un capriccio, una tentazione».

Miracoli. È il 2011. «Quando il vescovo di Stoccolma mi ha dato il permesso di tornare in Svezia per cominciare questa nuova vita, mi ha detto che era contento, ma che non avrebbe potuto sostenermi in nulla», perché la chiesa svedese è piccola e povera. Così suor Amada passa un mese a visitare quattro monasteri del sud della Svezia per capire come muoversi, «senza soldi, né casa, senza conoscere più niente».

Per quelle casualità che la religiosa chiama «miracoli», una telefonata arriva dal profondo nord proprio alla fine di quel soggiorno: c’era una casa in affitto. «Le sorelle mi diedero i soldi per il treno e partii subito per il nord». La casa in realtà si rivelò non adatta, ma i miracoli si inanellarono fino a portare suor Amada a trovare una prima sistemazione per sé e suor Karla.

«Siamo arrivate il 24 dicembre 2011, c’erano 30 gradi sotto zero. Ho subito capito che era lì che dovevo essere». Dopo qualche mese vedono la vecchia scuola di Lannavaara, «immersa nella natura più selvaggia», perfetta, inutilizzata da anni, costosa. Altri prodigi: «Ci siamo trasferite lì, anche se non avevamo i soldi per comprarla; abbiamo lavorato giorno e notte per renderla vivibile. Un giorno è passato un signore dalla Norvegia, entusiasta della nostra esperienza, perché non si era mai sentito parlare di un monastero così al nord». E dopo poche settimane è arrivata la cifra esatta per comprare la scuola. «Ogni giorno Dio ci aiuta ad andare avanti con la sua provvidenza, il suo miracolo quotidiano, ciò che ci basta per continuare».

Vite per Dio. «Silenzio, solitudine, preghiera» scandiscono le giornate di Amada e Karla. «Preghiamo insieme e poi al pasto serale ci parliamo. Sarà così anche quando saremo tre». «La mia sofferenza è vedere che in Svezia non ci sono sacramenti, c’è povertà spirituale, lontananza da Dio e dalla chiesa». E questo è il senso della vita qui al monastero San Giuseppe: «Pregare e offrire la vita a Dio, seguendo l’esempio di Maria, per la conversione delle anime, soprattutto degli scandinavi e la chiesa cattolica in Svezia». L’esperienza del buio che qui dura quasi per sette mesi l’anno aiuta a «pregare meglio per chi vive il buio dentro di sé, perché trovi la luce di Gesù».

Il quotidiano. Oltre alla preghiera ci sono il lavoro e l’accoglienza. Suor Karla è straordinaria nello scolpire il legno; le suore coltivano e vendono anche erbe aromatiche e candele. «Non usciamo mai», ma la notizia che lì abitano due suore gira di bocca in bocca. Solo per il primo Natale a Lannavaara «abbiamo fatto dei piccoli presepi e siamo passati in ogni casa del villaggio per regalarli e far vedere che siamo esseri umani, cristiani».

L’accoglienza è stata ottima e adesso sono le persone che vanno al monastero, per bere un caffè, pregare, meditare la Parola. Un altro grande dono di Dio è il prete inglese che vive sei mesi l’anno nel monastero. Quando lui non c’è, viene un sacerdote della parrocchia a celebrare l’eucarestia, oppure sono le suore ad andare là: 430 chilometri di strada. «D’inverno è buissimo, ghiacciato, c’è neve, vento e renne, daini, ogni genere di animali ti attraversa la strada. È molto rischioso, ma ti abitui. Devi solo pregare e andare».

Futuro. Il 1° maggio 2015 le suore hanno ottenuto il riconoscimento diocesano come Congregazione degli Agnelli di Maria. Difficoltà? Solitudine? «Sì, a volte sentiamo che forse nessuno si preoccupa se siamo vive o morte, ma non c’è scoraggiamento». La solitudine è parte dell’esperienza umana, «ovunque siamo nel mondo, dentro o fuori la chiesa». Del resto «ho ricevuto tantissime grazie da Dio e dalla chiesa per potermi lamentare o sentirmi scoraggiata. E voglio offrire la mia vita in ringraziamento per questo». Ora il desiderio è di rendere la vecchia scuola un vero e proprio monastero. Un architetto inglese ha regalato il progetto; il comune l’ha approvato. Un nuovo miracolo arriverà.

(Fonte: https://www.difesapopolo.it/Archivio/Speciali/L-anno-della-vita-consacrata/Oltre-il-Circolo-polare-artico-vita-da-suora-fra-preghiera-e-lavoro)

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L’Afghanistan consacrato al Cuore Immacolato di Maria

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 28/12/2017

Per la prima volta un paese musulmano, focolaio dell’Islam radicale, è stato consacrato al Cuore Immacolato di Maria, in occasione del centenario dell’ultima apparizione della Madonna a Fatima.

La cerimonia si è tenuta presso la cappella della nostra ambasciata a Kabul, con la presenza del primo consigliere dell’Ambasciata d’Italia e del cappellano della base NATO. Presenti anche tutte le suore della missione, fra le quali la nostra consorella suor Mariammal, e tanti fedeli.

Inoltre, «molti, in ogni parte del mondo, erano uniti spiritualmente con noi», racconta padre Giovanni Scalese, ordinario della missione “sui juris” dell’Afghanistan, il sacerdote barnabita già missionario in India e nelle Filippine:

«Quest’anno è il centenario di Fatima, oggi è l’anniversario dell’ultima apparizione: perché non consacrarci, come individui e come comunità cristiana, e consacrare questo paese al Cuore Immacolato di Maria per ottenere la sospirata pace?

Ci spinge la convinzione che le situazioni più difficili e intricate si possano risolvere da un momento all’altro, senza il minimo sforzo umano. Chi dirige la storia è al di fuori dalla storia. (…) Viviamo un momento storico importante, la consacrazione al Cuore Immacolato di Maria ci aiuta a vivere il nostro tempo in maniera più consapevole e nella totale disponibilità alla volontà di Dio.»

La situazione dei cristiani in Afghanistan è molto angosciosa. Il paese non riconosce alcun cittadino afgano come appartenente al cristianesimo, legalmente non gli è consentito di convertirsi.

I musulmani che cambiano fede commettono il crimine di apostasia. Ci sono alcuni casi di conversione ma solo in segreto; e comunque i convertiti al cristianesimo rimangono giuridicamente musulmani.

C’è solo una chiesa legalmente riconosciuta in Afghanistan, che si trova all’interno del quartiere diplomatico, e non è aperta ai cittadini locali.

Preghiamo per i cristiani perseguitati o non liberi di professare la loro fede.

(Fonte: “La Voce”, delle Figlie si S. Maria della Provvidenza, Anno LXI, n. 6/2017)

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“Ti passai accanto, eri nell’età dell’amore, ti ho preso per mano e sei diventata mia”

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 29/12/2016

“Ti passai accanto, eri nell’età dell’amore, ti ho preso per mano e sei diventata mia” – così Gesù si è ufficialmente dichiarato…

La storia di suor Laura, che rinuncia a una carriera nella moda per consacrarsi, e che ora è felicemente missionaria in Africa.

DUE VIDEO CHE VALE LA PENA GUARDARE FINO IN FONDO!

 

“C’è chi muore sotto terra, il chicco di grano, c’è chi lo innaffia e chi raccoglie e chi porta a casa i covoni. Noi non porteremo a casa i covoni, siamo ancora a livello di chicco che spesso muore sotto terra. Qualche piccolo germoglio già lo vediamo ma è ancora proprio piccolo. Ma questo ci basta, lo vedremo in Paradiso.” (Suor Laura Girotto)

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Rosemary, la suora che ricuce le borse, e le ferite delle bimbe soldato

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 19/12/2016

rosemary_01

Per 25 anni Joseph Kony e la sua Lord’s Resistance Army (LRA) hanno terrorizzato l’Uganda del nord. Rapivano i bambini per riempire il proprio esercito e farne degli omicidi, forzandoli a mutilare i membri delle loro stesse famiglie. Ragazzini e ragazzine venivano sottratti alle loro famiglie, ma le ragazzine soprattutto venivano ricercate dai ribelli perché oltre ad essere usate come bimbe soldato, venivano rese schiave sessuali per gli ufficiali di Koni.

Ora la guerra è finita ma decenni di questo brutale conflitto hanno segnato profondamente gli ugandesi. I bambini soldato, sono tornati alle comunità contro cui avevano commesso crimini violenti, le ragazze inoltre col ricordo costante del loro abuso, i figli dei loro rapitori. Queste ragazze, oggi giovani donne, sono spesso emarginate dalle loro comunità. Esse non solo hanno commesso crimini efferati, ma portano con sé i figli degli uomini che hanno distrutto così tante vite, comprese le loro. Molte di loro hanno perso le famiglie in guerra. Nessuna ha avuto l’opportunità di studiare. Dove potrebbero andare? Ce l’hanno un futuro?

rosemary_02[Ma c’è una donna che] sta ristabilendo la speranza nella sua nazione; Suor Rosemary, che abita presso la Scuola Vocazionale Saint Monica a Gulu, in Uganda. Lei ha vissuto nell’orrore della guerriglia di Koni e adesso lavora per guarire le ferite che lui ha inflitto alla sua gente.

Dalla sua infanzia Suor Rosemary ha appreso il valore del lavoro duro. Suo padre era un abile falegname, e sua madre le ricordava sempre che nessuno sarebbe morto per il lavoro in quel villaggio. A dieci anni va a vivere con sua sorella maggiore, col compito di occuparsi dei suoi nipoti. Sviluppa quindi la passione per la cura degli altri, che si porterà sempre dietro in tutta la sua vita.

E’ stata questa passione a portare la teenager Suor Rosemary a unirsi alle Suore del Sacro Cuore. Vedendo il loro ministero di compassione desiderava dare la propria vita per gli altri. In convento impara a fare molte cose che le torneranno utili in futuro. Studia da ostetrica ma dovrà interrompere gli studi per assistere un chirurgo. Come addetta alle suture il chirurgo le diceva spesso: “Quanto ti sto insegnando ti preparerà ad aiutare la gente in tempo di bisogno.” Le sue predizioni si sarebbero presto rivelate vere.

rosemary_03La guerra comincia quando la suora era a Gulu come coordinatrice di un piccolo gruppo di suore che vivevano nella via principale. Suor Rosemary veniva chiamata così tante volte a ricucire le ferite provocate dai ribelli.

Il conflitto cresceva così intensamente che la notte le sorelle erano costrette a rifugiarsi nel corridoio più interno e nascosto; sedevano, ascoltando gli spari e aspettando la luce del giorno. Suor Rosemary incontrava sovente i ribelli; una volta una donna arrivò perché inseguita da due di loro, la suora la nascose. Non avrebbe rivelato il suo rifugio nemmeno con una pistola puntata contro.

Il conflitto divenne così intenso che le suore dovettero lasciare Gulu. Dopo aver completato gli studi da ostetrica, i superiori chiesero alla suora di tornare a Gulu per coordinare la scuola vocazionale Saint Monica. Lì la suora dovette affrontare le sfide per cui era stata preparata durante tutta la sua vita.

Arrivata a Saint Monica, i ribelli ancora terrorizzavano la città. Non erano rimaste che trenta studentesse ma centinaia di persone cercavano rifugio lì la notte. La vocazione dell’istituto era quella di dare una formazione di qualità a persone con difficoltà economica ma stava diventando qualcosa di più.

rosemary_04Rosemary capì che queste ragazze erano state rapite e che avevano passato anni coi ribelli, perdendo ogni opportunità e senza alcuna istruzione. La suora allora ha ideato un corso pratico di taglio e cucito in cui le ragazze che non avevano avuto nemmeno un’istruzione base, avrebbero potuto imparare un mestiere aiutando se stesse e le loro famiglie. A quel corso si segnò un terzo delle ragazze.

La suora fece un annuncio alla radio offrendo quel corso a tutte le ragazze ritornate dalla prigionia. Arrivarono in centinaia. La scuola Saint Monica era di nuovo in fermento. La suora insegnava a quelle ragazze e diventare indipendenti ma soprattutto dava loro l’opportunità di guarire. Con amore, ascoltando quelle giovani donne, mostrando loro compassione, donando loro tempo per guarire, le suore alla scuola Saint Monica riportavano la speranza nelle vite di queste donne.

Adesso le suore hanno aperto un’altra scuola ad Atiak, a 90 km a nord di Gulu, entrambe le scuole sono autonome producendo uniformi scolastiche, cucina per eventi, producendo originali borse create cucendo le linguette delle lattine che adesso vendono in tutto il mondo.

Il sogno di suor Rosemary è quello di stabilire scuole del genere nel nord dell’Uganda e in Sud Sudan. Lei cuce un futuro brillante per il suo popolo e dice alle sue ragazze: “Il passato non può essere recuperato, ma c’è il futuro. La mia speranza parte adesso. Possiamo camminare, domani, nella speranza”

(Tradotto da http://www.prosforafrica.com/sewinghope)

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La suorina che affrontò Billy the Kid

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 12/09/2015

Blandina_01Sarà santa la suora più veloce del West che sfidò Billy the Kid

Il Far-West lo hanno fatto i cow-boy, gli indiani, i missionari cattolici e le suore. Sì, le suore: energiche, coraggiose, talora eroiche e magari anche sante come suor Blandina Segale, per la quale – lo ha annunciato mons. Michael J. Sheehan, arcivescovo di Santa Fe, nel New Mexico – si apre ora, dopo il nulla osta della Santa Sede, la causa di beatificazione.

Suor Blandina era italiana, nata a Cicagna, in provincia di Genova, il 23 maggio 1850 con il nome di Rosa Maria. Quando aveva quattro anni, i suoi genitori (Giovanna Malatesta e Francesco Segale) si spostarono a Cincinnati, in Ohio, è così la futura suora divenne americana. Blandina fu il nome della martire del II secolo che Rosa volle assumere entrando nelle Suore della Carità l’8 dicembre 1868, a 16 anni. Così fece subito dopo pure la sorella maggiore, Maria Maddalena, che, dopo avere rifiutato diverse proposte di matrimonio, la seguì nello stesso convento come suor Giustina (spesso anglicizzato in Justina).

La prima missione di suor Bladina fu l’insegnamento nelle cittadine di Steubenville (dove oggi sorge, fondata nel 1946, una ben nota università francescana, fiore all’occhiello della Chiesa statunitense) e di Dayton, in Ohio. Poi, il 27 novembre 1872, fu inviata in missione in Colorado, precisamente (fate caso ai nomi) nella cittadina mineraria di Trinidad, contea di Las Ánimas, valle del fiume Purgatoire (che gli spagnoli chiamavano “El Río de las Ánimas Perdidas en Purgatorio”) noto tra l’altro per le molte menzioni che gli tributa il classico del cinema western L’uomo che uccise Liberty Valance, diretto nel 1962 da John Ford, con John Wayne e James Stewart.

Blandina_02Ora, il Colorado di allora non era quello di oggi, raggiungibile comodamente in areo, famoso per i resort e rinomato per alcune tra le piste da sci più belle del mondo. Era invece un territorio semiselvaggio di frontiera infestato da indiani e pistoleri. Suor Blandina non se ne accorse subito. Quando le dissero Trinidad, aveva pensato alla lussureggiante isola delle Piccole Antille davanti al Venezuela o all’omonima cittadina tropicale di Cuba. A bordo del treno che attraversava le polveri roventi del deserto si accorse invece che l’attendeva tutt’altro. Ventiduenne, viaggiò da sola nella desolazione e il 9 dicembre arrivò a destinazione: poche case al limite dell’ecumene umano che per i fuorilegge del West erano come la Tortuga per i pirati caraibici e dove il linciaggio era il modo usuale per regolare i conti. Suor Blandina insegnava ai ragazzi di quel mondo surreale, e una volta riuscì anche a salvare la pelle a un tale che aveva sparato a un tizio: la folla lo aveva strappato dalla cella in cui era rinchiuso per impiccarlo in piazza, ma suor Blandina convinse uno sceriffo attonito a farsi consegnare l’assassino, questi a chiedere perdono alla sua vittima e la folla, sbigottita, a tornarsene a casa.

Ben altra minaccia incombeva però su Trinidad e il suo nome (meglio, nomignolo) era Billy the Kid, il famoso ladro e assassino, al secolo Henry McCarty (1859-1881) ‒ e anche Henry Antrim o William Harrison Bonney ‒, reso celebre da cinema, tivù e fiction. Quelle erano le sue zone di bottino. Ma nemmeno per il più smaliziato dei criminali le cose filavano lisce sempre. Durante un alterco, uno della banda aveva sparato a Billy, che ora agonizzava in una baracca poco lontana da Trinidad. Appena lo seppe da un ragazzino della scuola, suor Blandina corse dal bandito: a dargli cibo e acqua certo, ma soprattutto a rispondere alle domande su Dio e sulla religione che quel furfante introverso e caratteriale non cessava mai di farsi. Poi Billy guarì, ma solo dalle ferite: l’aveva giurata ai medici che non lo avevano voluto curare perché era un brigante e così diede loro, anzi al loro scalpo, appuntamento per un assolato sabato alle 14,00 precise.

Blandina_03Giunto a Trinidad, però, Billy non incontrò i dottori, ma suor Blandina. La salutò con estrema cortesia, impegnandosi per riconoscenza a esaudire qualsiasi desiderio ella avesse espresso. E, ovvio, suor Blandina disse a Billy di lasciar stare lo scalpo dei quattro medici. Billy sussultò, si adirò meravigliato che la suora conoscesse il motivo del suo arrivo in città, ma poi si quietò e risparmiò le vite che aveva deciso di prendere. La storia della suorina genovese che nel selvaggio Ovest ferma il famoso “Attila” da film fece il giro del mondo e ancora oggi passa di bocca in bocca. Tanto da averle guadagnato il soprannome di “suora con gli speroni” e “suora più veloce del West”: più lesto il suo amore in Dio di qualsiasi revolver. Dopo Trinidad suor Blandina fu assegnata – era il dicembre 1873, a Santa Fe, nel New Mexico. Per arrivare laggiù, all’epoca si percorreva un bel tratto dei 1400 chilometri di pista per mandrie e carovane che partiva da Franklin, nel Missouri.

Nel mezzo del nulla; perché se qualcosa c’era, erano gli indiani. Il Colorado faceva ancora parte dei Territori non organizzati che erano di chi di fatto li occupava; il Texas aveva appena smesso di essere una repubblica indipendente; e la pista si snodava lungo la Comanchería, la patria dei non proprio amichevoli indiani omonimi. Una esodo, che la suora ricorda nel suo libro At the End of the Santa Fe Trail, pubblicato postumo per la prima volta nel 1932. Giunta a Santa Fe, andò subito a trovare un vecchio amico. Billy the Kid, che, catturato, se ne stava in prigione. Per poco, però, perché presto fuggì. Un giorno, a bordo di una diligenza, suor Blandina e altri furono molestati dai banditi.

Blandina_04All’avvicinarsi dei predoni, i viaggiatori tremavano e lei recitava il rosario. Poi il capo della banda gettò uno sguardo rapace dentro la diligenza, fece un gesto di riverenza col cappello e voltò il cavallo altrove. Era sempre Billy, e la presenza di suor Blandina ne aveva ancora una volta stemperato i propositi malvagi. Per un altro ventennio abbondante la vita della suorina genovese portò Gesù nel Far West, ma anche l’istruzione, l’educazione, la cura dei malati e la difesa dei diritti umani di indiani e d’ispanici, inaugurando scuole, ospizi e ospedali. Nel 1882 ricostruì il convento distrutto di Albuquerque e, sempre lì, nel 1901 portò a termine la costruzione del St. Joseph Hospital. Quando, a Trinidad, qualcuno le disse con disprezzo che con quell’abito da consacrata non poteva certo insegnare, suor Blandina sfoderò una copia della Costituzione federale degli Stati Uniti sventolandone il Primo Emendamento che definisce al libertà religiosa la prima libertà dei cittadini e americani, e continuò per la sua strada tipo “ragazzo scansati, che debbo lavorare”.

Poi la piccola grande suora rientrò, oramai anziana, a Cincinnati, dove, con la sorella suor Giustina, creò un centro di assistenza per italiani che le occupò gli ultimi anni di vita, appena prima di sapere che l’altrettanto famoso sceriffo Pat Garrett (Patrick Floyd Garrett, 1850-1908), da sempre alle calcagna di Billy the Kid, aveva finalmente ucciso il bandito. Il pensiero di suor Blandina tornò ai loro primi colloqui, chiedendosi se quell’assassino e ladro avesse avuto il tempo di trovare quella pace divina cui tanto bislaccamente da sempre anelava. A Cincinnati suor Blandina si spense il 23 febbraio 1941. Fu una delle prime donne a prendere la patente; ovviamente guidava una Ford.

Il suo nome, l’ennesimo nome italiano di un consacrato a Dio nel selvaggio West americano, è legato a storie di eroismo e di abnegazione vere che sono più affascinanti di qualsiasi romanzo d’appendice, tant’è che Rosa Maria Segale è persino finita in una puntata della serie della CBS Death Valley Days; negli anni 1960 è stata protagonista di due storie edite sul periodico cattolico di fumetti Treasure Chest of Fun & Fact, illustrate da Loyd Ostendorf (1921-2000) ‒ artista e storico, noto per le biografie del presidente Abraham Lincoln ‒; e anche in Italia l’editore di comics Bonelli l’ha immortalata in un albo della serie Magico Vento. Cosa non riesce a produrre l’amore dei santi per Cristo…

(Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana)

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Dal Giappone un piccolo cuore cattolico che pulsa… seguendo le orme di Cristo crocifisso

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 12/03/2015

Da un po’ seguo un blog molto interessante, di un sacerdote missionario in Giappone che commenta il Vangelo del giorno in una maniera che mi edifica ogni giorno di più.

Cattolici giapponesi

Cattolici giapponesi (immagine tratta dalla rete)

Ho pensato allora di condividere la sua presentazione, che trovate anche sul sito http://vangelodelgiorno.blogspot.jp/

Mi chiamo Antonello Iapicca, sono un presbitero italiano missionario in Giappone, a Takamatsu, da molti anni. Ora mi trovo in una zona di 200.000 abitanti dove non vi è presenza cattolica, annunciando il Vangelo insieme a due famiglie missionarie, una italiana e una spagnola.

La mia esperienza

Sono nato a Roma 51 anni fa. A 15 anni sono entrato nel Cammino Neocatecumenale, dove Dio si è mostrato un Padre pieno di misericordia per me; con la forza della Parola, della liturgia e della comunità, a poco a poco ha curato le mie ferite e, illuminando la mia vita come un prodigio del suo amore, mi ha riconciliato con tanti eventi che mi avevano rubato la speranza. L’esperienza della vittoria sulla morte di Gesù Cristo compiuta nella mia vita mi ha svelato la chiamata di Dio.

Il presbiterato era il frutto di un’opera che mi sorpassava e mi sorprendeva. Venti anni fa fui inviato in Giappone, seminarista del Seminario Redemptoris Mater di Takamatsu. Come seminarista ho potuto ricevere una formazione che non si esauriva nello studio ma, accanto ad una disciplina di preghiera e di intimità con il Signore attraverso la liturgia e la Parola, si sviluppava sul campo reale dell’evangelizzazione grazie al Cammino Neocatecumenale.

Attraverso la comunità di cui facevo parte sono entrato a poco poco in Giappone, iniziando a sperimentare le gioie e le difficoltà della missione, condividendo con i fratelli le nostre vite. Sono stato ordinato 14 anni fa nella Cattedrale di Takamatsu, nella quale ho trascorso come vice-parroco i primi tempi del ministero; sono stati anni bellissimi nei quali il Signore mi ha donato di vivere a stretto contatto con il Vescovo Mons. Fukahori, e il Parroco Padre Shimoda, la cui esperienza, semplicità e santità hanno segnato questi primi passi nel presbiterato.

Cattolici giapponesi 02In Parrocchia il Signore mi ha donato di annunciare il vangelo a tanti cristiani facendo esperienza delle varie realtà presenti, gruppi di studio della Bibbia, preparazione ai matrimoni, catechismo, visite ai malati e ai fedeli che si erano allontanati dalla Chiesa. Lo sguardo profetico e lo zelo per il Vangelo di Mons. Fukahori lo hanno spinto, nove anni orsono, ad aprire all’evangelizzazione una vasta zona in espansione alla periferia sud di Takamatsu, dove non vi era una presenza concreta della Chiesa Cattolica.

Qui mi ha inviato insieme a due famiglie in missione del Cammino Neocatecumenale, una spagnola ed una italiana, per iniziare una missione rivolta direttamente ai pagani. Ho affittato una casa arredandola secondo un’estetica che parlasse al cuore delle persone. Ed ho cominciato a vivere, semplicemente.

Ogni giorno è stato un’opera esclusiva della Grazia e della Misericordia di Dio che mi hanno sostenuto, rigenerato e incoraggiato laddove sperimentavo la mia estrema debolezza, la paura e, spesso, il rifiuto della solitudine e del fallimento. Il Signore mi ha concesso di sperimentare una nuova forma di esercitare il ministero presbiterale, forse la sua essenza più profonda; nulla delle tradizionali attività di una parrocchia, mentre molti sono stati i giorni di solitudine e apparente inattività.

Molte le persone conosciute che ho accolto in casa, anche se il peso della società e la fragilità hanno spesso impedito che le relazioni si traducessero in un interesse palese e costante. Accanto alle famiglie in missione ho ricevuto i doni più grandi della mia vita, sperimentando l’autenticità delle parole del Signore sulla missione della Chiesa quale sale, luce e lievito nella società.

Ho vissuto questi anni a contatto quotidiano con la fede adulta e viva di questi fratelli che hanno irradiato, umilmente e nascostamente, la luce della Pasqua nelle tenebre di solitudine, paura e disperazione di questa società. La loro presenza, in una precarietà assoluta, abbandonati alla Provvidenza e all’amore di Dio, giorno dopo giorno, sta salando la zona in cui viviamo e attirando un certo numero di persone.

Ho sperimentato così sul campo, come la “Missio ad Gentes” necessiti di un lungo tempo e di una comunità cristiana che dia i segni di una fede adulta, capaci di interrogare e chiamare chi ancora non conosce Gesù Cristo. Abbiamo fatto diverse volte catechesi e abbiamo avuto la gioia di predicare il Vangelo a tanti che non avevano mai ascoltato la Buona Notizia. Un piccolo numero di questi è entrato in comunità ed ora cammina con la comunità che regolarmente si riunisce nella mia casa.

Cattolici giapponesi 03Molti che non sono entrati in comunità, e che forse mai vi entreranno, rimangono comunque legati alle famiglie in missione, cui si rivolgono nella sofferenza e nei momenti difficili. L’opera delle famiglie in missione è insostituibile; esse giungono dove un presbitero da solo non potrebbe mai arrivare. Attraverso di loro sono entrato anch’io nelle scuole, negli ospedali, nelle case dei giapponesi, entrando in contatto con la loro vita reale. In questi anni il Signore è andato formando con noi un corpo che, attraverso scontri e riconciliazioni, sperimentasse la comunione che viene dal Cielo.

Così, vivendo semplicemente ogni giorno, sperimentiamo con stupore come lo stesso Gesù Cristo si faccia presente laddove lui desidera condurci. Così si può dire che ogni istante della nostra vita è parte della missione e tutto quel che viviamo è un’opera dell’amore di Dio per noi e per i giapponesi che incontriamo e in mezzo ai quali abitiamo. E’ per me una gioia immensa servire le famiglie in missione con cui evangelizzo; alimentare attraverso la Parola ed i Sacramenti la loro fede, mi ha svelato la bellezza e la ricchezza del presbiterato.

Ed è una consolazione che non ha prezzo sostenere i loro figli che, come in una trincea sul fronte dell’evangelizzazione, soffrono ogni giorno la propria vita nella scuola e nel lavoro, spesso rifiutati o presi in giro perché cristiani o stranieri, e vedere come la fede si traduca nelle loro vite in segni evidenti della presenza del Signore. Sono questi ragazzi le punte di lancia dell’evangelizzazione, ed è un onore per me partecipare con loro a questa missione.

Un fatto ha sigillato questi anni illuminandoli come l’esperienza del chicco gettato in terra che, se non muore, non può produrre frutto. Cinque anni fa, dopo una lunga malattia, si è spento Felix Cordero, il padre della famiglia in missione spagnola. La fede con la quale, insieme alla moglie e ai figli, ha vissuto la malattia ed il passaggio al Padre ha segnato indelebilmente la missione di questa zona, come una profezia di ciò che davvero è l’evangelizzazione.

Quaresima_02Come il Centurione sotto la Croce, molte persone hanno visto in lui e nella sua famiglia il volto del Figlio di Dio. Questa famiglia è una prova che Cristo è davvero risorto dalla morte: oggi quattro suoi figli sono sposati, una di loro è in missione con la sua famiglia in Giappone, un’altra è suora di clausura in un Carmelo, un altro figlio è in procinto di entrare in seminario e un altro è itinerante annunciando il Vangelo.

La morte di Felix ha aperto una voragine di difficoltà, ma è stata davvero come il sepolcro del signore: tutta la famiglia vi è uscita risuscitata in una vita nuova! In questa luce ogni evento, ogni sofferenza, difficoltà, tentazione, danno senso alla missione, che è soprattutto offrire gratuitamente la propria vita come il signore l’ha offerta per noi. Questo ho visto in Felix, in Maite sua moglie, nei suoi figli e così anche, in circostanze diverse, nella famiglia italiana.

Questo evento è stato per me, come uomo, come cristiano, come presbitero, una Parola chiara ed inequivocabile del Signore che mi ha indicato l’unica via autentica della missione: seguire le orme del Signore crocifisso.

 

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In Uganda… 1.100 bambini riportati a casa, grazie ai missionari

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 18/10/2014

Visitando coloro che vivono nei bassifondi della storia, dimenticati da tutto e da tutti, un video ci racconta “Periferie cuore della missione”.

VI PREGO DI GUARDARLO FINO IN FONDO!

(In particolare ai minuti 6.00 e 19.10)

“Se troviamo qualcosa possiamo comprare da mangiare (…) Ogni giorno dormiamo qui in 35 adulti, ognuno coi propri bambini. Io dormo fuori, dormo qui intorno”

“Siamo andati a chiedere l’elemosina, ma la polizia ci ha fermati, ha portato via il mio bambino e mi ha riportato qui con un camion; sono tornata indietro a cercare mio figlio ma non sono riuscita a trovarlo, poi alla fine sono dovuta tornare a casa, eravamo disperati, pensavamo anche che Adomè potesse essere morto”

I missionari glielo hanno riportato!!! (Clicca sul minuto 6.00 per vedere la gioia della mamma che riabbraccia il figlio rapito)

Come lui, 1.100 bambini riportati a casa…

Il mondo missionario non sta alla finestra a guardare il PIL che cresce a dismisura, insieme al numero dei poveri tra i più poveri…

In Uganda, i missionari costruiscono ponti tra la polizia e il popolo, questo è uno dei miracoli più grandi.

Vi suggerisco uno sguardo particolare al minuto 19.10 per capire da dove vengono gli immigrati che cercano rifugio nel nostro paese…

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Il cammino che giunge al cuore è quello che convince di più

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 21/01/2014

Don_Bosco_01

In una giornata afosa e soffocante camminavo per Torino in compagnia del fedelissimo don Rua e di un altro salesiano, quando a un tratto i miei occhi indugiarono su una scena che mi riempì il cuore di profonda tristezza: un ragazzino, forse avrà avuto dodici anni, stava tentando di trascinare un carretto carico di mattoni sull’acciottolato sconnesso della via.

Era un garzone muratore esile e piccolo che, incapace di smuovere quel peso superiore alle sue forze, stava piangendo disperato. Mi staccai dai due salesiani e corsi verso quel povero ragazzo, gli sorrisi con un lieve cenno d’amicizia e lo aiutai a spingere quel peso sino al cantiere di lavoro.

Tutti si meravigliarono nel vedere arrivare in quel posto un prete con tanto di tonaca nera; il ragazzino, invece, aveva capito al volo che gli volevo davvero bene se mi ero messo al suo fianco per un gesto solidale di aiuto concreto.

Don_Bosco_02Mi piace ricordare questo fatto, uno fra i tanti, perché lo considero il simbolo del mio grande amore verso i giovani. Amore non fatto di parole, amore che parlava dritto al cuore. Di questo ero certo: il cammino che giunge al cuore è quello che convince di più e spazza via ogni resistenza e ogni possibile dubbio.

[Autore: Pascual Chàvez Villanueva, Il Bollettino Salesiano, Novembre 2013]

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Avere a che fare con un bambino significa SCENDERE, noi adulti invece lottiamo per salire!

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 24/12/2013

Suor_Donatella_01Suor Donatella Lessio, suora padovana da nove anni impegnata al Caritas Baby Hospital di Betlemme, unico ospedale pediatrico della città in cui è nato Gesù, condivide la sua esperienza.

Quando sono arrivata al Caritas Baby Hospital non avevo nessuna esperienza con i bambini. Ne avevo tanta con gli adulti. Anni di lavoro in Ospedale con loro mi hanno reso esperta e sapevo come “muovermi” senza sentirmi a disagio. Ma arrivata qui a Betlemme mi sono sentita persa, mi sono trovata e dover ri-vedere e ri-disegnare una modalità di approccio che mi era estranea.

Il bambino ha un mondo tutto suo che noi adulti facciamo fatica a capire, pur essendo stati bambini anche noi, ma con il passare degli anni ci si dimentica e si costruiscono delle sovrastrutture mentali che offuscano anche gli occhi del cuore.

Ho avuto bisogno di parecchio tempo prima di riuscire a sintonizzarmi nella lunghezza d’onda dei piccoli, nel cercare di guardare il mondo, la vita dal loro orizzonte, secondo i loro occhi, il battito del loro cuore, ed e’ stata ed e’ un’esperienza meravigliosa.

Suor_Donatella_02Avere a che fare con un bambino significa SCENDERE, noi adulti invece lottiamo per salire!

Scendere fino al suo livello, fino ad incrociare i suoi occhietti. A volte si e’ costretti ad “accucciarsi”, (non trovo un termine più adatto per dire il movimento che un bambino ci costringe a fare) per poter essere faccia a faccia con lui, o addirittura strisciare per terra per incontrarlo.

E quando si riesce ad incontrare un piccolo, non si scende solo fisicamente ma si arriva a perdere le categorie artefatte dell’adultità (le sovrastrutture) per guardare il mondo da una prospettiva diversa, più vera, più naturale, più umana, meno ingarbugliata dei nostri ragionamenti senza fine, piu’ autentica ed aperta ad un’accoglienza che non fa differenze, che non calcola, piu’ leale e spontanea, piu’ gioiosa, dove tutto e’ scoperta positiva.

Scendere per incontrare un bambino allora non e’ perdere ma imparare una lezione di vita che solo loro, i piccoli possono insegnarci. E la fragilità di un bambino diventa fortezza perchè mi fa vedere la mia fragilita’, quanto io, uomo/donna adulto sono lontano dalla mia chiamata iniziale, quella dell’essere, pensato da Dio nell’atto della creazione “e vide che era cosa molto buona” e così le parti si invertono, i ruoli si scambiano; loro i piccoli che consideriamo fragili, vulnerabili diventano invece i nostri accusatori ma anche i nostri modelli “se non diventerete come bambini non avete accesso al Regno dei cieli”.

Suor_Donatella_03Lavorando poi qui al Caritas Baby Hospital oltre a scendere ho capito che un bambino, specie se malato, mi costringe a non rimanere nella superficie ma andare in profondità per trovare una risposta, qualora ci sia davvero, alle mille domande che lavorando in un ospedale pediatrico ci si pone con l’aggiunta di altre dettate dalla situazione di Betlemme. Scendere fino al nucleo all’essenza della propria esistenza.

Come dicevo ho lavorato con adulti ma il bambino ti scaraventa giù con violenza verso un apparente abisso che non ha nessun appiglio per fermare la caduta. Perché la malattia di un bambino? Perché il dolore innocente? Perché la morte, quella dovuta alla patologia infausta e/o quella dovuta ad una lastra di cemento che non ha permesso al bambino di andare in un ospedale chirurgico?

Non e’ facile trovare una risposta, ammesso che ci sia e proprio questa difficoltà ti costringe a rivedere il tuo concetto di vita e di morte, di dolore e di sofferenza, di male e di bene, di paura di quella fragilità che ci accompagna fin dalla nascita ma che, con il passare del tempo rivestiamo di solidità, di potenza, di fortezza, di coraggio! E se guardo a come un bambino guarda a queste realtà, o vive queste dimensioni per noi adulti apparentemente in perdita, ancora una volta mi e’ maestro, ancora una volta mi da’ lezioni di vita che non si trovano scritte in nessun libro.

Suor_Donatella_04Ancora una volta la fragilità/potenza dei piccoli diventa opportunità di guardare all’esistenza e ai suoi “accidenti” con occhi di chi affronta queste situazioni come parte integrante della creazione che “è cosa molto buona”, come realtà che fanno parte di un gioco, di un gioco che però nonostante tutto porta a vincere.

È questo il messaggio che ricevo ogni giorno dai “miei” piccoli che poi è lo stesso messaggio del bambino Gesù che ha fatto della sua fragilità nella Grotta di Betlemme una forza d’amore dalla croce nel Calvario.

Suor Donatella Lessio

[Fonte: http://www.unattimodipace.it]

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