Posts Tagged ‘#noaborto’
«L’Italia sta morendo di denatalità e promuovono la pillola abortiva»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 24/08/2020
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Unplanned
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 24/01/2020
Unplanned narra la storia (vera) di Abby Johnson, una donna di 39 anni convertita alla causa pro vita dopo aver lasciato il suo lavoro alla Planned Parenthood, la potentissima organizzazione abortista che le aveva affidato la direzione di una clinica nel Texas (premiandola, nel 2008, come «dipendente dell’anno»)
La svolta per Abby Johnson arrivò nel 2009, quando, a causa di un’improvvisa carenza di personale, le chiesero di coadiuvare un medico in un’operazione di routine: abortire un feto alla tredicesima settimana. Nel vedere il bambino contorcersi disperatamente e scappare per evitare di essere risucchiato dall’aspiratore, Abby Johnson comprese per la prima volta la grande menzogna nascosta dietro al “diritto” all’aborto.
Clicca qui per maggiori informazioni su come e dove vedere il film.
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«Ero apostata, perseguitavo i cristiani, io ero la più anticlericale che si possa essere, femminista e pro-aborto.»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 21/10/2019
Infermiera abortista, anticlericale e femminista: si converte grazie all’incontro con le suore di Madre Teresa
Un articolo un po’ lunghetto che però vale davvero la pena di legger fino in fondo. Consiglio anche la visione del video alla fine.
Maria è il nuovo nome che questa donna ha voluto per sé, dopo la sua conversione e rinascita spirituale e fisica. Quando viveva nel buio più profondo (era arrivata ad ammalarsi e a tentare il suicidio), si chiamava Amaia, e ora a 45 anni racconta l’incontro inaspettato e prodigioso con Dio, che l’ha guarita e riportata in vita.
Questa infermiera di Bilbao praticava aborti in quantità ogni giorno: oggi è una fervente cattolica che ha incontrato GESU’ durante la Santa Messa, a cui non voleva partecipare, ma “per caso” si trovò in quella chiesa, in quel giorno, in un angolo sperduto del mondo, a Kathmandu, in Nepal, grazie ad alcune suore Missionarie della Carità di Madre Teresa.
In una testimonianza dettagliata che ha raccontato durante la Settimana della Famiglia 2019 nella diocesi di San Sebastian, Maria Martinez ha ricordato che “ero apostata, perseguitavo i cristiani, io ero la più anticlericale che si possa essere, femminista e pro-aborto…”.
Ma soprattutto, questa donna ha spiegato il fatto che ha segnato profondamente la sua vita. “Queste mani”, sottolineò, “erano macchiate di sangue innocente. Ho lavorato in una clinica per aborti per anni praticando l’aborto come infermiera “.
All’inizio, Maria (il suo nome era Amaia) lavorava come infermiera in una clinica, conosciuta con il nome di “Pianta del cielo”, in cui doveva accompagnare e seguire le coppie con donne incinte. Ma poi dovette scendere alla “pianta dell’inferno”, in cui venivano praticati gli aborti.
Lei era quella che per anni ogni mattina, dal lunedì al giovedì, aiutava il ginecologo a compiere centinaia di aborti. “Ogni mattina ricevevo donne incinte e le mandavo via senza il loro bambino”. – “La cosa fondamentale era far sì che le donne non dessero problemi, questo era il mio lavoro”, ha spiegato Maria. E ogni 15 minuti una donna andava in sala operatoria. Prima, ha aggiunto, “il mio compito era quello di isolare la donna in modo che non cambiasse idea, la toglievamo dalla realtà”.
Una volta arrivati in sala operatoria, molti tremavano, ma non a causa del freddo ma a causa della paura. “Si doveva procedere con il massacro”, ha sottolineato l’infermiera, “era una vera e propria caccia al bambino, al suo smembramento. Prima viene rotta la placenta in modo da far fuoriuscire il liquido amniotico, poi vengono introdotti i dilatatori per distruggere la vita all’interno, la gabbia toracica, il cranio, le braccia, le gambe vengono rotte, tutto deve essere annullato per essere risucchiato nel vuoto e poi cadere in un secchio.”
A volte ritornava a casa con la mano violacea, a causa della forza della sua presa, dato che lei doveva essere il sostegno delle donne che avevano abortito.
Ma Maria oggi rivela che “quelle donne non erano consapevoli che avevano scelto la strada dell’omicidio e del male totale. La mia coscienza era sonnecchiante sotto uno strato di menzogne, credendo che stavo facendo la cosa giusta e che stavo facendo il bene quella donna. “
Un giorno Maria si paralizzò, quando vide il piede di uno dei bambini abortiti nel secchio, perché fino ad allora cercava di convincersi che erano solo grumi di cellule. ” Ma quando vivi nelle tenebre, il tuo cuore diventa molto duro. Il mio era già molto impietrito. I miei capelli hanno iniziato a cadere e in quel periodo ho avuto anche la calvizie “.
Per provare a scrollarsi di dosso il male che stava facendo, Maria cominciò a correre perché ” quando sei sopraffatto dal disgusto per il male che hai fatto, provi a fare qualcosa per scacciarlo da te stesso, cercando di dimenticare, ma lui continua a perseguitarti”.
Aveva 27 anni e si sposò quando decise che voleva continuare a fare progressi e andò a studiare Fisioterapia a Barcellona. A Bilbao lasciò alle spalle l’aborto, cercando di scrollarselo di dosso, ma poi si trovò di fronte alla rovina del suo matrimonio. Tre anni dopo le nozze, suo marito era molto cambiato, da quando aveva aperto un consultorio con grande successo. La fama e i soldi lo avevano portato a cambiare amicizie e a passare da una festa all’altra.
Maria di nuovo tentò la fuga dal dolore e dai problemi, continuando a scappare e a correre: così ha cominciato a viaggiare per il mondo, facendo escursioni in foreste e arrampicandosi sulle montagne più impervie, cercando l’adrenalina nello sfidare il limite della morte. Ma poi un giorno, l’11 gennaio 2017, suo marito le disse che voleva lasciarla e la abbandonò andandosene di casa.
Pochi giorni dopo, Maria tentò il suicidio: “Quando ti trovi nel vuoto, senti solo un sussurro e chi sussurra dentro di te ti dice che non c’è speranza”. Ma in quel momento ricevette una telefonata. Era una guida nepalese con la quale stava facendo una rotta sull’Himalaya. Dopo il terremoto, c’era bisogno di personale sanitario che fosse anche disposto a muoversi sulla montagna. C’era bisogno di lei perché aveva tutti i requisiti necessari.
Anticattolica com’era, Maria si fece coinvolgere molto dalla spiritualità buddhista. Dopo un periodo di permanenza nel paese, si verificò un evento che sarebbe diventato provvidenziale per lei. Il monsone stava avanzando e, a causa delle valanghe di pietra che si riversavano sulle strade, Maria fu costretta a rimanere nella capitale nepalese e non in montagna come era il suo obiettivo iniziale.
Recandosi in visita ad alcuni spagnoli in viaggio in Nepal, un giorno si rese conto che accanto ad un tempio buddista c’era una casetta da cui provenivano dei forti gemiti. Le spiegarono che era un posto dove morivano i più poveri e solo le suore Missionarie della Carità di Madre Teresa potevano entrare in quel luogo. “Odiavo Madre Teresa perché ero un dottore e ricordavo come lei lavorava e per me era il contrario”, ha ricordato nella sua testimonianza.
Pochi giorni dopo, a un bivio, si imbatté in due di queste suore di Madre Teresa. Maria ha raccontato: “Sono venute direttamente da me. Una mi ha afferrato per un braccio, un’altra mi ha bloccata e mi ha detto che dovevo andare con loro da qualche parte per aiutarle”. Maria non voleva sapere nulla delle suore cattoliche e disse loro di lasciarla in pace, così le suore salirono su un autobus e se ne andarono. Tuttavia, quella notte “lo Spirito Santo non mi ha permesso di dormire”. Si svegliò all’alba e con la guida tornò all’incrocio dove le aveva incontrate.
La conversione totale durante la Santa Messa
Alla fine trovò la casa delle Missionarie e alla porta le venne incontro la suora conosciuta il giorno precedente: “Era ora!”, fu la prima cosa che le disse la suora Missionaria della Carità. Ma con sua sorpresa, Maria quel giorno non poteva essere ricevuta per un colloquio, ma solo il giorno dopo alle sei del mattino, dopo la Santa Messa, a cui doveva partecipare.
Maria molto infastidita, non poteva credere a quello che le avevano detto. Ma la mattina dopo era lì mezz’ora prima dell’appuntamento in programma. Nella cappella vide le nove suore inginocchiate ed un sacerdote. Maria non parlava inglese quindi non capiva nulla, ma poi arrivò il momento fulminante che avrebbe provocato la sua conversione. Non sarebbero trascorsi cinque minuti dall’inizio della celebrazione dell’Eucaristia, quando: “Sentivo un’emozione nel mio cuore, una voce che mi diceva: ‘Benvenuta a casa’.
Quando l’ho sentito, ho cercato intorno a me chi poteva aver parlato e mi dicevo che forse ero sconvolta, a causa dell’altitudine. Ma poi ho sentito di nuovo: “Benvenuta a casa, quanto tempo ci hai messo ad amarMI !”.
A quel punto capii da dove proveniva quella Voce e a Chi dovevo guardare: la Croce. Caddi in ginocchio a terra e potei solo piangere, piangere e piangere. Stavo piangendo a causa di quella immensa e profonda tristezza dentro di me, causata dall’aver preso le distanze dall’Amore. Ho anche gridato di immensa gioia perché stavo vivendo la misericordia di Dio “.
Maria ricordò come in quel momento “c’era grande pace nel mio cuore. Mi sono sentita perdonata, mi sono sentito amata, benedetta, resuscitata… ” Senza rendersene conto, erano passate tre ore, anche se a lei erano sembrati solo secondi. Alzando gli occhi, notò che tutte le suore erano al suo fianco in preghiera, consapevoli del miracolo che stava avvenendo.
“Dio mi ha restituito alla terra dei viventi”
“Quando alzai la fronte il mio sorriso, i miei occhi, la mia pelle, tutto in me era ritornato in vita, perché Dio mi aveva restituito alla terra dei viventi. Poi le suore che avevano pregato, mi hanno detto che da quel momento mi sarei chiamata Maria“, ha raccontato questa donna, spiegando perché aveva deciso di non chiamarsi più Amaia.
Solo allora poteva comprendere perché quelle suore le erano andate incontro a quell’incrocio e la avevano fermata. Le Missionarie della Carità lo avevano chiamato il “miracolo di Maria”. L’intera comunità aveva pregato la Madonna per un anno affinché arrivasse un volontario che fosse anche un fisioterapista. ” Lo Spirito Santo, quando ti ho vista quel giorno, mi ha detto: ‘E’ Lei ‘,” le rivelò la suora che quel giorno per strada la aveva trattenuta per un braccio.Risultato dell’immagine dei missionari del nepal di beneficenza
È rimasta con loro per quattro mesi e con queste suore Maria è stata in grado di capire veramente a quale dignità Dio la aveva chiamata e con quanto Amore la aveva aspettata. Poi le suore di Madre Teresa hanno detto a Maria che doveva tornare in Spagna, perché lì Dio aveva una missione per lei.
Maria doveva consolidare questa conversione e recuperare il suo matrimonio.
A Medina de Pomar ha incontrato altre suore di Madre Teresa che sono diventate il suo sostegno nel cammino di fede e di recupero della sua vita. Con loro, Maria ha cominciato un percorso di preghiera per suo marito e per recuperare il suo matrimonio, il prossimo passo di questa donna completamente rinnovata e finalmente felice.
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«T’avrei voluto volere quella volta che non ti ho voluto…»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 21/02/2019
L’attore Andrea Roncato rispondendo con coraggio alle domande di Silvia Toffanin racconta la sua vita, la popolarità, gli errori, e tra questi, il più drammatico della sua vita:
«Un figlio mi manca, – racconta Roncato – è stato il vero errore della mia vita. Quando ero molto giovane ho avuto la possibilità di diventare padre, di avere un figlio, ma feci un aborto.
Adesso sono diventato estremamente antiabortista.
Ho fatto anche un libro per questo bambino che non è mai nato che si chiama T’avrei voluto. “T’avrei voluto volere quella volta che non ti ho voluto”, è l’ultimo verso di una poesia che ho scritto e che si chiama proprio T’avrei voluto.»
Alla domanda della conduttrice – «Ti sei perdonato per questo?» – l’attore risponde:
«No, posso perdonarmi tutto ma io credo che i figli siano l’unica vera ricchezza che un uomo possa lasciare al mondo. Puoi lasciare bei film, belle poesie, soldi, quello che vuoi, ma credo che lasciare un figlio sia la cosa più bella che un uomo possa fare.»
Vero Andrea, i figli sono l’unica vera ricchezza che un uomo possa lasciare al mondo ma su una cosa hai torto secondo me: sull’imperdonabilità di un peccato che, pur restando gravissimo, può essere rimesso da Dio, l’unico che possa guarire le ferite sanguinanti provocate dai nostri errori, mediante la meravigliosa “invenzione” della confessione, di una confessione ben fatta.
Scrivo sperando che chi legge possa pregare per te e per chi si trova in una situazione simile, affinché il Signore ti convinca del fatto che si può davvero essere perdonati, e guariti, come il Prof. Oriente, abortista pentito.
Ringrazio Andrea Roncato per aver condiviso questa sua sofferenza che ci permette anche di ricordare il dolore di quegli uomini che hanno subìto l’aborto di un figlio, i papà silenziati a cui non si dà voce.
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«Il problema è che lo vuole morto…»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 31/01/2019
La Dottoressa De Mari con la sua solita chiarezza e con coraggio, illustra i “progressi” statunitensi nell’ambito dei diritti umani.
Ascoltiamola attentamente e sosteniamola con la preghiera!
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«Volevo abortire, poi ho letto il suo post e ho cambiato idea.»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 22/01/2019
Silvana De Mari è una dottoressa che difende la vita col coraggio del “politically incorrect”; in passato ho condiviso nel blog una sua testimonianza forte quanto autentica del suo percorso da medico abortista a strenuo difensore della vita dal suo inizio al suo termine naturale.
Può piacere o meno il suo modo diretto e asciutto di dire le cose come stanno, ma a me non disturba, anche perché è una delle poche persone col coraggio di farlo, impegnando tempo ed energie, mettendoci la faccia nonostante i tanti attacchi di chi la pensa come il pensiero dominante.
La seguo sui social ed è per questo che condivido con piacere un suo post che ci aiuta a capire il vero senso di ogni attivismo a difesa della vita, basta una persona…
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“Io ti sento mamma, ti sono più vicina di quanto tu possa immaginare”
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 01/01/2019
Cara mamma,
Ormai ho 8 settimane, sono piccola e indifesa ma con te mi sento al sicuro. Sarà qualcosa d’istintivo, sarà la sicurezza che mi ispiri o quella sensazione che provi quando senti di essere nel posto giusto al momento giusto, ma io non so neanche cos’è la paura. Sono piccola e non so niente della vita, ma vorrei impararlo da te.
L’altro giorno sei andata dal medico, ti ha detto che hai un mese per decidere cosa fare, ti ha detto che ti cambierò la vita e mi ha chiamata feto. Io non so neanche cosa vuol dire questa parola. Ero convinta di essere una persona in carne ed ossa, uguale a tutti gli altri, ma ora mi rendo conto di essere considerata un peso.
Quando sei sola io più delle volte piangi, e il tuo pianto mi fa sentire molto triste, mi sento in colpa, ed un bambino così piccolo non dovrebbe preoccuparsi di queste cose. E ultimamente stai spesso sola, soprattutto da quando papà ti ha detto che non vuole saperne niente di me.
Sono ancora piccola per capire come io possa essere un problema, ma non credo che crescendo possa comprenderlo. Io ti sento mamma, ti sono più vicina di quanto tu possa immaginare, ti sento, sento tutta la tua tristezza, e vorrei aiutarti, vorrei prenderti la mano e stringerla, finché non ti sentirai più sola.
Vorrei tanto conoscerti mamma. Per il momento sento solo la tua voce, sarebbe così bella se non fosse tanto spaventata. La sera ti sento canticchiare, ti dai coraggio e nello stesso tempo infondi coraggio anche in me. Non ti conosco, mamma, ma già sento di volerti bene.
Mamma, sii una delle tante mamme europee che non si arrendono, che non hanno paura di accettare un figlio. Aiuta l’Europa a crescere contro l’aborto. Aiuta me a crescere con te, per fare un giorno, dell’Europa, un posto migliore.
Ma te lo immagini mamma? Tu mi insegnerai a camminare e a disegnare, mi farai giocare e mi starai accanto la notte quando non riuscirò ad addormentarmi.
Cara mamma, affronteremo tante cose insieme, ti farò disperare e ti farò tornare il sorriso con io mio carattere da buffona, ma sarà quando finalmente riuscirò a chiamarti “mamma” che capirai che hai fatto la cosa giusta.
Sarai felice delle nausee mattutine, delle ore di travaglio, delle pappe sparse per la cucina e dei muri imbrattati, quando finalmente ti chiamerò “mamma” e quando con quelle parola ti dirò: “Grazie! Grazie di aver scelto di amarmi!”.
[Tema di Cristina Planelli, studentessa del II Liceo Classico dell’Istituto Gesù Nazareno di Roma, tra le vincitrici del XXV concorso scolastico europeo A. S. Organizzato dal Movimento per la Vita.]
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«Dobbiamo dire agli uomini e alle donne del mondo: non disprezzate la vita!»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 11/10/2018
Mi interpellano e mi fanno pensare le parole del Papa all’udienza generale del 10 ottobre 2018.
«Si potrebbe dire che tutto il male operato nel mondo si riassume in questo: il disprezzo per la vita. La vita è aggredita dalle guerre, dalle organizzazioni che sfruttano l’uomo – leggiamo sui giornali o vediamo nei telegiornali tante cose –, dalle speculazioni sul creato e dalla cultura dello scarto, e da tutti i sistemi che sottomettono l’esistenza umana a calcoli di opportunità, mentre un numero scandaloso di persone vive in uno stato indegno dell’uomo. Questo è disprezzare la vita, cioè, in qualche modo, uccidere.
Un approccio contraddittorio consente anche la soppressione della vita umana nel grembo materno in nome della salvaguardia di altri diritti. Ma come può essere terapeutico, civile, o semplicemente umano un atto che sopprime la vita innocente e inerme nel suo sbocciare? Io vi domando: è giusto “fare fuori” una vita umana per risolvere un problema? E’ giusto affittare un sicario per risolvere un problema? Non si può, non è giusto “fare fuori” un essere umano, benché piccolo, per risolvere un problema. E’ come affittare un sicario per risolvere un problema.»
Provoca, mette in crisi, papa Francesco, senza mezzi termini, ma dà anche la soluzione:
Dobbiamo dire agli uomini e alle donne del mondo: non disprezzate la vita!»
(Fonte: www.vatican.va)
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«Dentro o fuori dal corpo, il cuore di mia figlia batteva e non mi sono sentita di fermarlo»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 14/09/2018
Il miracolo di Vanellope, la bambina nata con il cuore fuori dal petto, che condivido con tanta gioia e con l’invito a pregare per lei e per questa famiglia coraggiosa e aperta alla vita.
I genitori rifiutarono l’aborto nonostante il parere dei medici e oggi, dopo un anno di cure e interventi, la loro piccola sta bene ed è finalmente tornata a casa. Che bello!
“Non può farcela” è la frase che Dean Wilkins, 44 anni, e Naomi Findlay, 32 hanno sentito rimbombare nella testa da quando durante un’ecografia – momento magico per ogni coppia che aspetta un figlio – i medici diagnosticarono alla loro bambina una rara condizione: la “ectopia cordis”: l’assenza della cassa toracica con il cuore di conseguenza collocato fuori dal corpo.
Il coraggio dei genitori di dire no all’aborto
E nonostante la ferma decisione dei genitori di non abortire, ipotesi più volte proposta loro dai dottori, chissà quante altre volte avranno dovuto udire quelle tre parole maledette, dure come macigni: “Non può farcela”. Ma il 22 novembre 2017 la loro piccola Vanellope Hope è nata e come ogni mamma e papà il loro cuore è scoppiato di gioia e paura.
Un intervento complesso
Un corpo così fragile come può sopravvivere? La domanda dei medici, dei parenti, degli amici. E invece la bambina si è attaccata alla vita – battagliera e coraggiosa come i suoi genitori – e beffandosi della condanna a morte già scritta e delle statistiche, ha subito un’operazione delicata e complessa un’ora dopo la sua venuta al mondo e miracolosamente ce l’ha fatta. Un evento unico! Sono infatti pochissimi i neonati in tutto il mondo che, nelle sue stesse condizioni, sono sopravvissuti. (Messaggero)
Riportare il cuore all’interno del corpo
Durante l’intervento il cuore è stato riportato all’interno del corpo e ha cominciato finalmente a battere al sicuro. Uno staff di 50 persone ha preso parte all’operazione eseguita presso il Glenfield Hospital di Leicester. Vanellope ha dovuto subire altre delicate operazioni.
In questi giorni, dopo quasi un anno, la piccola Vanellope Hope (questo il nome completo e che si chiami Speranza non è un caso) è finalmente tornata a casa.
L’amore della famiglia
La notizia è bellissima ma lo è ancora di più la testimonianza di questi genitori che hanno accolto e protetto la loro bambina fin dal concepimento senza cadere nell’inganno dell’aborto, lottando per lei con coraggio e credendo che la sua vita fosse comunque preziosa. Quando Vanellope sarà grande e conoscerà la sua storia sarà fiera di avere una mamma e un papà che l’hanno considerata un dono unico ed inestimabile.
“Dentro o fuori dal corpo, il cuore di mia figlia batteva e non mi sono sentita di fermarlo” aveva affermato Naomi (Repubblica)
Cresci sicura e libera, hai un cuore grande per amare, piccolo miracolo!
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«Molti dei miei coetanei non vedono di buon occhio andare in chiesa o frequentare un gruppo parrocchiale. Molto però dipende anche da come ti poni.»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 30/06/2018
Arturo Mariani, classe ’93, studente di Scienze delle Comunicazioni alla Sapienza nel tempo libero, fa parte della Nazionale Amputati, senza avere subito amputazione: già nel ventre materno, infatti, la sua gamba destra non si sviluppa.
Nei suoi due libri racconta di sé, senza filtri, né falso perbenismo la sua storia: straordinaria, nella sua ordinarietà, tra alti e bassi, una grande passione per il calcio, due genitori presenti, due fratelli ed un cugino a cui è molto legato, l’infanzia, l’adolescenza, gli amici, il gruppo giovani Arcobaleno, il volontariato, l’avventura della Nazionale e… la scelta di testimoniare la bellezza della vita, con il suo sorriso!
Cosa provi, pensando che, quando nascesti, a tua madre proposero l’aborto? Quando hai saputo questo dettaglio della tua storia?
L’aborto va contro la vita, è un omicidio, perché, per me, è vita dal primo momento. Penso con orgoglio alla scelta che ha fatto mia madre, ma capisco che non tutti fanno questo ragionamento. Ma c’è poco da ragionarci su: è vita. Punto.
Ho saputo questo dettaglio verso i dodici anni, ma sono sempre stato informato su tutto, anche se sempre in modo graduale e rispettoso del mio sviluppo psicofisico. Tanti mi chiedono se io abbia poi saputo il motivo che ha portato alla mia malformazione intrauterina: devo confessare che, in realtà, non è una cosa a cui i miei genitori si siano particolarmente interessati, prestando, piuttosto, maggiore attenzione al modo in cui risolvere al meglio (protesi e cambio delle stesse in relazione alla crescita, stampelle) i problemi di deambulazione che ho.
In diverse parti del tuo libro, parli del fatto di essere “additato” per la tua diversità: hai mai imparato a “conviverci” o, ancora adesso, ti dà fastidio?
Fastidio no, ma mi rendevo conto di essere al centro dell’attenzione in modo particolare: sguardi, o anche situazioni spiacevoli, sono stati importanti per riflettere e capire quanto l’ignoranza sia diffusa. Mi sono reso conto che stava a me trovare le risposte, prima di pensare che fossero “gli altri” a dover cambiare.
È più difficile spiegare la tua condizione ai grandi o ai piccoli?
Da parte mia, cerco sempre di essere spontaneo. Nei bambini, prevale lo stupore iniziale, fino ad avere domande irreali, come «Dove hai lasciato la gamba?», a cui rispondo sullo stesso tono, che l’ho dimenticata a casa: per un fanciullo, il problema è risolto in questo modo, perché non parte da pregiudizi. Questi, negli adulti, sono più diffusi e richiedono più tempo per essere sconfitti.
Nato così: l’autobiografia di un ragazzo che non è speciale, è unico. Come lo è ciascuno di noi! Che messaggio hai voluto trasmettere ai tuoi lettori con la tua “opera prima”?
Complice l’esperienza con la Nazionale, sentivo la responsabilità di far conoscere la mia storia, perché mi rendevo conto dello stupore che ci attorniava. In questo modo, potevo veicolare un messaggio di speranza a tutti quelli che pensano solo a lamentarsi perché focalizzati solo sugli aspetti negativi.
Cito, da pag. 22 (Nato così), dove c’è un piccolo capolavoro di filosofia di vita che, personalmente, condivido: «L’impatto con te stesso è la tua immagine allo specchio e se non ti piace è un problema. Conosci i tuoi punti deboli, accettali e contrastali con i tuoi infiniti lati positivi e sarai invincibile. (…) Se non ci piace qualcosa di noi stessi, che sia caratteriale o fisico, dobbiamo impegnarci per modificarci puntando alla perfezione, che ovviamente non raggiungeremo mai, ma comunque ci prefissiamo il più alto degli obiettivi. alla base di tutto, dobbiamo cominciare ad accettarci a prescindere, accettare anche i difetti, perché non possiamo modificarli tutti. Puntiamo alla perfezione ma allo stesso accettiamoci per la nostra più estrema imperfezione».
Confermi questa tua “teoria” dell’amor di sé, anche nei propri limiti?
Confermo, avere una sorta di “leggerezza cosciente” aiuta a crescere, senza farsi angosce inutili.
Nel tuo libro critichi, in modo più o meno velato, il poco spazio che i media riservano a ciò che va al di là delle aspettative comuni: a tuo avviso, quale ruolo hanno (o possono avere), nella possibilità di superare i limiti (spesso culturali) che, il più delle volte, siamo noi stessi ad imporci?
Sicuramente, i media hanno grandi potenzialità. I social network (Facebook, Instagram), me ne accorgo anche a livello personale, possono aiutarti a raggiungere tante persone, ma non basta: chi è più “famoso”, ha anche maggiore responsabilità, perché ha l’opportunità di farsi ascoltare da più persone.
Tuo padre accenna ad un momento in cui sei stato preso in giro, durante giochi con coetanei. Ricordi quale fu la tua reazione, che tuo padre valutò generatrice di “rispetto, affetto e stima” nei tuoi riguardi?
Bisogna sempre partire da se stessi, la colpa non va data agli altri: devo trovare io la soluzione su me stesso. Sono sempre stato abituato così, fin da quando ero abbastanza piccolo (6-7 anni). Così, con spontaneità e sicurezza, ho sempre domandato, a fronte magari di qualche brutto atteggiamento nei miei riguardi, perché quella persona parlasse o si comportasse in quel modo. In genere, l’altro non sa rispondere, per cui rimane, in un certo senso spiazzato.
C’è una cosa strana che spicca. La normalità, anche per chi si definisce credente, è allontanarsi dopo la Cresima. Tu invece fai parte del “piccolo gregge” che ha deciso di continuare. Cosa ti ha spinto a farlo e come hai vissuto questa, di diversità, rispetto ai coetanei?
La scelta è stata quasi “obbligata”, dal momento che avevo vissuto bene il percorso precedente e che la fede, per me, è sempre stata importante (grazie anche al fatto di averla vissuta in famiglia). Ancora oggi, il mercoledì è il giorno di ritrovo del gruppo, che è per noi momento di confronto sulle cose più importanti della vita: io per primo vado anche al “muretto”, ma mi rendo conto che quello non era per me luogo di crescita. Molti dei miei coetanei non vedono di buon occhio andare in chiesa o frequentare un gruppo parrocchiale. Molto però dipende anche da come ti poni: se presenti la tua esperienza con spontaneità, coraggio ed entusiasmo, le difficoltà sicuramente si dimezzano.
Che ricordi conservi dell’esperienza di giocare una partita contro i detenuti, tra le mura del carcere di Rebibbia?
È un’esperienza unica, che ti cambia completamente la prospettiva. Esce fuori il senso di libertà vero. Prima, magari c’è la paura o il pregiudizio verso chi incontrerai (così come tanti hanno pregiudizi nei miei confronti): in entrambi i casi, successivamente, parlando insieme o giocando a pallone, ogni pregiudizio è abbattuto dal fatto che hai davanti una persona, come te.
Sei reduce dall’esperienza dell’Europeo con la Nazionale Amputati, in Turchia. Quali sono i tuoi ricordi più belli legati a questo evento?
È stata un’esperienza incredibile, diversa da tutte le altre: forse, perché è stata la prima “professionistica” (ci svegliavamo presto al mattino, giocavamo tutti i i giorni…) e tutto ciò è una bella differenza, rispetto alla mia quotidianità. Abbiamo anche raggiunto un obiettivo importante ed inatteso (il quinto posto nel ranking europeo). Il ricordo che conservo con più entusiasmo, ma anche tristezza, è la finale che si è disputata nello stadio del Besiktas: uno stadio pieno, con 40000 persone sugli spalti, per la partita Turchia – Inghilterra. C’era un’atmosfera indescrivibile: sembrava di essere alla finale di un Mondiale! Poi, era quasi come se ci fossi io in campo, nel senso che conoscevo diversi ragazzi di entrambe le squadre.
Fino all’aeroporto di Istanbul, tutti parlavano di noi, eravamo in prima pagina su giornali e tv. Non appena tornato in Italia, invece, il buio totale. Nessuno sapeva neppure che avessimo disputato un Europeo. Questo testimonia che persino nei confronti della Turchia, che giudichiamo di solito un Paese arretrato, abbiamo tanto da imparare, per quanto riguarda la visibilità degli sport paralimpici.
Hai scritto un altro libro, uscito qualche settimana fa, Vita nova, in cui hai intervistato, tra gli altri, Nino Benvenuti, Massimiliano Sechi, Francesco Acerbi, Monsignor Pompili, Alex Zanardi… per un totale di 13 interviste, in cui i prescelti raccontano di un evento che ha cambiato la loro vita: perché questo secondo libro? Cosa accomuna i personaggi che hai intervistato?
Durante la presentazione del primo libro, la mamma di un ragazzo disabile mi disse che io avrei dovuto diventare famoso, per raccontare storie di dolore a tutto il mondo, portando il tuo sorriso. Diventare famoso è una responsabilità, nei confronti di chi ti ascolta. Ho pensato che il modo migliore, dopo aver raccontato (e scoperto) me stesso, fosse quello di dar voce ad altre persone ed altre storie, che toccano tanti temi: coraggio, resilienza, senso di libertà… La resilienza è sicuramente un tema importante, perché si parla del dolore e della capacità non solo di resistere (come uno scoglio che si oppone alla forza delle onde), ma anche di piegarci, adattandoci alla situazione, per poi ritornare alla nostra forma naturale, nella consapevolezza che nessuna onda durerà per sempre. Si rinasce nuovamente, proprio a partire dagli eventi più traumatici. questo è un po’ il senso del libro.
(Fonte: https://www.sullastradadiemmaus.it/)
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