Domenica 21 maggio papa Francesco ha riconosciuto le virtù eroiche di otto nuovi venerabili tra cui Maria Cristina Ogier, morta l’8 gennaio 1974 a soli diciannove anni.
Nata a Firenze nel 1955, a quattro anni le viene diagnosticato un tumore al cervello. La bambina, poi la ragazza, vivrà questa malattia senza nasconderla né ostentarla, ma vivendo la sua vita con un’intensità non comune.
Nel suo traboccamento di carità, arriva persino ad allestire un battello fluviale attrezzato come medicheria e dispensario farmaceutico con funzioni di vero e proprio mini ospedale, da inviare al Rio delle Amazzoni. Per raggiungere il suo scopo sollecitò l’aiuto dei portuali di Livorno che, colpiti dalla sua determinazione e semplicità, l’aiutarono al meglio delle loro possibilità.
Si iscrive a medicina senza poter frequentare ed entrò nel Terz’Ordine Francescano. Durante un viaggio a Lourdes – dove accompagnava i malati con l’Unitalsi – si consacra a Maria.
Semplice, genuina, nel 1971 ascoltando a scuola discorsi e pensieri sull’aborto, esortò il papà Enrico, primario di Ostetricia e Ginecologia all’ospedale Careggi, a fare qualcosa in merito.
Il risultato di questa esortazione ispirò la nascita del primo Centro d’Italia di “Aiuto alla vita”, che ispirerà il Movimento per la Vita, che si batte per i diritti del concepito e del nascituro.
Muore a diciannove anni l’8 gennaio 1974
Il suo corpo giace al cimitero delle Porte Sante a San Miniato al Monte (Firenze).
Maria Cristina ha tracciato la strada a molti che oggi difendono la vita dagli attacchi che le arrivano da più fronti.
Con coraggio non ha avuto paura di esortare, di insistere, per aprire vie al bene dove sembra che non ve ne siano.
Una giovane che non ha perso tempo e che ha vissuto con intensità la sua breve vita su questa terra e che ora dal Cielo continuerà, a suo modo, l’opera iniziata qui.
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Una giovane semplice con l’audacia di insistere per fare il bene, che non ha perso tempo…
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 22/05/2023
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«L’Italia sta morendo di denatalità e promuovono la pillola abortiva»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 24/08/2020
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«Che gliela fai ascoltare a fare? Tanto è morto.»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 19/11/2019
Il racconto dell’amore ostinato di una madre che, contro i pareri di medici e infermieri, ha consentito al figlio di uscire dal coma.
«Io sono qui perché mamma non si è mai rassegnata e non l’ha mai data vinta ai dottori facendomi staccare la spinae io sono ancora vivo grazia a lei!» (Roberto, sopravvissuto al coma)
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“Io ti sento mamma, ti sono più vicina di quanto tu possa immaginare”
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 01/01/2019
Cara mamma,
Ormai ho 8 settimane, sono piccola e indifesa ma con te mi sento al sicuro. Sarà qualcosa d’istintivo, sarà la sicurezza che mi ispiri o quella sensazione che provi quando senti di essere nel posto giusto al momento giusto, ma io non so neanche cos’è la paura. Sono piccola e non so niente della vita, ma vorrei impararlo da te.
L’altro giorno sei andata dal medico, ti ha detto che hai un mese per decidere cosa fare, ti ha detto che ti cambierò la vita e mi ha chiamata feto. Io non so neanche cosa vuol dire questa parola. Ero convinta di essere una persona in carne ed ossa, uguale a tutti gli altri, ma ora mi rendo conto di essere considerata un peso.
Quando sei sola io più delle volte piangi, e il tuo pianto mi fa sentire molto triste, mi sento in colpa, ed un bambino così piccolo non dovrebbe preoccuparsi di queste cose. E ultimamente stai spesso sola, soprattutto da quando papà ti ha detto che non vuole saperne niente di me.
Sono ancora piccola per capire come io possa essere un problema, ma non credo che crescendo possa comprenderlo. Io ti sento mamma, ti sono più vicina di quanto tu possa immaginare, ti sento, sento tutta la tua tristezza, e vorrei aiutarti, vorrei prenderti la mano e stringerla, finché non ti sentirai più sola.
Vorrei tanto conoscerti mamma. Per il momento sento solo la tua voce, sarebbe così bella se non fosse tanto spaventata. La sera ti sento canticchiare, ti dai coraggio e nello stesso tempo infondi coraggio anche in me. Non ti conosco, mamma, ma già sento di volerti bene.
Mamma, sii una delle tante mamme europee che non si arrendono, che non hanno paura di accettare un figlio. Aiuta l’Europa a crescere contro l’aborto. Aiuta me a crescere con te, per fare un giorno, dell’Europa, un posto migliore.
Ma te lo immagini mamma? Tu mi insegnerai a camminare e a disegnare, mi farai giocare e mi starai accanto la notte quando non riuscirò ad addormentarmi.
Cara mamma, affronteremo tante cose insieme, ti farò disperare e ti farò tornare il sorriso con io mio carattere da buffona, ma sarà quando finalmente riuscirò a chiamarti “mamma” che capirai che hai fatto la cosa giusta.
Sarai felice delle nausee mattutine, delle ore di travaglio, delle pappe sparse per la cucina e dei muri imbrattati, quando finalmente ti chiamerò “mamma” e quando con quelle parola ti dirò: “Grazie! Grazie di aver scelto di amarmi!”.
[Tema di Cristina Planelli, studentessa del II Liceo Classico dell’Istituto Gesù Nazareno di Roma, tra le vincitrici del XXV concorso scolastico europeo A. S. Organizzato dal Movimento per la Vita.]
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«Non siamo qui in un caso di accanimento terapeutico»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 27/04/2018
La dottoressa Matilde Leonardi, neurologa, direttore del centro ricerche sul coma istituto BESTA di Milano fa chiarezza sulla situazione di Alfie.
«Non cambia la prognosi, ossia cosa succederà di Alfie, ma cambiano due elementi di questa vicenda:
Il primo, noi come istituto neurologico BESTA ci siamo offerti dall’inizio di poter affiancare i colleghi inglesi in uno spirito di collaborazione scientifica – perché nelle malattie difficili la scienza non ha confini – e dovrebbe essere lo stesso anche nella circolazione dei pazienti, perché parliamo di malati che cercano le migliori cure e qui non è una cura per guarire, qui si tratta di far accettare questo bambino all’interno di un ospedale, due ospedali italiani hanno già detto che sono disponibili ad accettarlo, primo tra tutti il Bambino Gesù di Roma.
Accettarlo per fare che cosa? Per guardare con una cura palliativa anche il percorso che va verso la fine, non decidendo che la fine debba essere stabilita in un momento specifico per sentenza.
Non siamo qui in un caso di accanimento terapeutico, questo va detto molto chiaramente, non siamo in accanimento terapeutico che vuol dire dare una cura sproporzionata rispetto alla condizione clinica del bambino, qui il “best interest” per l’ospedale è la morte del bambino.
Qui bisogna riflettere anche a tutti voi italiani che siete qua, rispetto a questa condizione riguardo anche a un altro punto: come genitori, se noi fossimo nella stessa situazione, non avremmo il diritto di poter dire – voglio portare il mio bambino da un’altra parte, dove morirà, ma morirà assistito in una maniera che voglio decidere io. Questa limitazione della capacità dei genitori la trovo una cosa gravissima.
Se posso aggiungere un’ultima cosa, la differenza tra sistema italiano e sistema inglese, che mi è stata chiesta più volte. Sono molto bravi, hanno fatto molte indagini diagnostiche, credo che il bambino sia stato trattato bene dai colleghi inglesi, sia dalle nurse che dai medici, il bambino non aveva piaghe da decubito e non aveva segno di lesione, ma c’è una grandissima differenza: in Italia quando c’è un caso del genere non siamo in caso di accanimento terapeutico, noi lo assisteremmo, anche fosse per vent’anni e lo assisteremmo anche se fosse di una nazionalità straniera, in Inghilterra invece hanno deciso che questo bambino dev’essere soppresso (sospeso?) per una sentenza e non per un parere medico.»
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«Chi può dire che non fosse una condizione di vita? Era vita anche quella, la mia volontà era che non mi staccassero le macchine.»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 14/12/2017
Avere vent’anni significa vivere una vita dinamica e coltivare sogni per il futuro. È stato così anche per Sara Virgilio, oggi quarantatreenne, fin quando un pirata della strada la falciò sulle strisce pedonali in pieno centro abitato, nella sua Salerno.
Il dolore, la paura, gli ospedali, il coma, una vita che sembrava perdersi. E che invece è tornata a librare non senza difficoltà. Quella di Sara Virgilio è una testimonianza che lascia il segno, un manifesto contro la “cultura della morte” che qualcuno, in questi giorni di dibattito sulla legge sul biotestamento, vorrebbe – spiega lei stessa a In Terris – “camuffare da diritto”.
La storia
Era il 1994 quando Sara divenne “una vittima della strada”. Dopo il violento impatto con l’automobile, rimase atterra sulle strisce pedonali. “Ebbi una serie di fratture ed entrai in coma – racconta -. Fui trasportata in eliambulanza da Salerno al Policlinico Gemelli di Roma, dove il caso clinico fu trattato secondo protocollo”.
Sara rimase in coma per circa un mese. “Al di là della durata del coma, è l’intensità che conta”, spiega. Si tratta di “una condizione non facile da descrivere, perché chi la vive sa di essere in coma, vorrebbe comunicare con l’esterno ma non può”. Le sono rimasti oggi “solo alcuni frammenti di ricordo”, spiega che non sentiva dolore e che non sempre aveva “una percezione chiara di ciò che avveniva”.
Ma bastano quei frammenti per inquadrare bene la situazione. “Ci furono diverse complicazioni, tra cui un’emorragia celebrare e una polmonare”, afferma Sara. Che aggiunge: “I medici non mi avevano dato grandi speranze di sopravvivere”.
Eppure, nei suoi sprazzi di lucidità era forte l’intento di “essere considerata una persona”. Sara racconta che “volevo uscire da quello stato e far capire agli altri che c’ero, che avevo una dignità e che stavo lottando per svegliarmi”. “Avvertivo – continua – la presenza di mia madre, lei che entrava nella stanza e che mi parlava”.
Voglia di vivere
Sara avrebbe voluto risponderle, ma si sentiva – afferma – “prigioniera del mio corpo”. Una condizione che, tuttavia, anziché fiaccare la sua voglia di vivere, le diede una “forza mai immaginata prima”. “Chi può dire – si chiede – che non fosse una condizione di vita? Era vita anche quella, la mia volontà era che non mi staccassero le macchine”.
Una forza che è rimasta salda anche dopo il risveglio. “Quello fu il momento in cui iniziai a sentire dolore”, racconta. Fu un periodo tribolato, non sapeva in che condizioni sarebbe sopravvissuta. All’inizio era bloccata sul letto, poi fu messa su una sedia a rotelle e lentamente riacquisì l’uso della parola. “I dolori erano spesso lancinanti – ricorda -, non sono mancati i momenti di sconforto, ma fu importante il sostegno dei miei genitori e mai ho pensato di voler morire”.
Oggi Sara ha una laurea in Biologia, lavora ed è felice. Anche se non mancano gli strascichi di quell’incidente avvenuto ventitré anni fa. Entra ed esce dagli ospedali. “Appena una settimana fa è terminato un ultimo ricovero”, afferma.
Lo sguardo sul Senato
In Senato prosegue l’acceso dibattito sulla legge sul Biotestamento. Una questione che tocca Sara personalmente. Prima dell’incidente, le era capitato di chiedersi come avrebbe reagito se si fosse trovata in una condizione di salute disperata. “C’è però una differenza sostanziale – riflette oggi -: un conto è porsi questa domanda quando si è sani, un conto è essere infermi”.
Sara spiega che “quando la condizione è estrema, anche se l’esperienza è vissuta in maniera diversa da persona a persona, l’istinto è quello di aggrapparsi alla vita con tutte le proprie forze”. Secondo Sara non è possibile prevedere come si reagirebbe in determinate condizioni, per questo le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) rappresentano un pericolo, “non danno spazio al ripensamento”.
Come nasce la “cultura della morte”
Il problema, secondo Sara, è anzitutto culturale. “Oggi si pensa che la vita è tale solo quando si può viaggiare e correre – afferma -. Ma non è così. La persona ha dignità anche quando è costretta su un letto d’ospedale”.
E ancora: “Si sta diffondendo un’idea utilitaristica della vita umana: nel momento in cui non siamo più in grado di produrre, diventiamo un costo e veniamo tolti di mezzo. È così che nasce la ‘cultura della morte’ camuffata da diritto”, che si traduce “nella fretta ad approvare la legge sulle Dat”.
Secondo Sara, il malato chiede di morire “quando si sente lasciato solo”. Pertanto è fondamentale “la vicinanza e la cura degli altri”, nonché “strutture ospedaliere in grado di accogliere e sostenere anche i casi più disperati”. Ecco allora – osserva – “che più che aiutare le persone a morire, sarebbe opportuno che la politica investisse per seguire i pazienti in strutture adeguate e non farli sentire abbandonati”.
Leggi che minacciano la vita
È un tema – ci tiene a sottolineare Sara – che si collega a quello dell’aborto. “In nome della salute delle donne, sta avvenendo – la sua riflessione – una strage di innocenti nella pancia materna. Bisognerebbe mettere invece le donne nelle condizioni, economiche e sociali, di poter avere figli senza sentirlo un peso ma un dono”.
Il suo è dunque un appello, contro la “cultura della morte” promossa da leggi volte “a distruggere la vita e la famiglia”. È un grido che è entrato nei palazzi istituzionali, nel febbraio scorso ha parlato in Senato in una conferenza organizzata dall’Associazione ProVita Onlus. È un inno alla vita che in queste ore torna più che mai attuale.
[Fonte: https://www.interris.it/%5D
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Il ritorno di Erode
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 28/06/2017
La decisione con cui la Corte europea dei diritti umani, disponendo il ritiro delle misure preventive per il piccolo Charlie Gard, ha approvato le decisioni prese dai tribunali britannici in base alle quali si possono sospendere le cure cui finora il piccolo – di appena dieci mesi e purtroppo gravemente malato – è stato sottoposto per essere tenuto in vita, è uno spaventoso concentrato di paradossi. A partire dal fatto che sia un tribunale dal nome tanto rassicurante – Corte europea dei diritti umani – a emettere un verdetto che, in sostanza, è la condanna a morte di un soggetto debole e del tutto innocente.
Un secondo paradosso della vicenda si annida poi nella sostanza di motivi per cui, mediante la sospensione di terapie per lui vitali, il piccolo Charlie verrà lasciato morire, riassumibile nella tesi secondo cui le cure attuali, se protratte, gli arrecherebbero «un danno significativo»; come se invece il decesso equivalesse, per un bambino che oltretutto non sta neppure soffrendo fisicamente, a un miglioramento delle condizioni. In questo caso d’ora in poi i malati, soprattutto inglesi, farebbero bene a rivolgersi prudenzialmente ai propri medici in questo modo: «Dottore, la prego, mi curi. Ma stia attento a non esagerare, mi raccomando».
La battuta può forse strappare un sorriso amaro, ma non è che la conseguenza logica dell’assurda vicenda. Un terzo paradosso sta poi – più in generale – nel drammatico rovesciamento che la storia di Charlie Gard sta determinando per il diritto, per la medicina e, più in generale, per la civiltà, ossia il passaggio dalla protezione del più debole alla sua eliminazione: un vero e proprio ritorno di Erode. Com’è possibile? Quali meccanismi possono aver determinato un così sconvolgente scenario? A un simile interrogativo il giurista, il medico e il filosofo morale di orientamento progressista avrebbero tutti, statene certi, la loro brava risposta.
Una risposta chiaramente ben condita di filantropia, tecnicismi e giri di parole tutti sapientemente finalizzati a nascondere l’evidente: e cioè che Erode è davvero tornato. In che modo? Grazie alla progressiva ritirata, in ambito occidentale, della cultura cristiana.
Proprio così. E’ stato difatti il Cristianesimo a introdurre e promuovere, storicamente, il rispetto per il più debole – e per il bambino – fino a quel momento sconosciuto. Al punto che erano i più illustri pensatori non cristiani a sentenziare che la medicina non avrebbe dovuto occuparsi di coloro che, come Charlie, versavano in condizioni gravi.
Platone, per esempio, ebbe ad affermare:«Allora, insieme con tale arte giudiziaria, codificherai tu nel nostro stato anche la medicina nella forma da noi detta? Così, tra i tuoi cittadini, esse cureranno quelli che siano naturalmente sani di corpo e d’anima. Quanto a quelli che non lo siano, i medici lasceranno morire chi è fisicamente malato» (Repubblica, 409e-410a). Ora, non saranno le stesse identiche parole dei giudici inglesi né di quelli Corte europea dei diritti umani ma la sostanza, oggettivamente, non è poi così diversa. Poi però, come si diceva, a correggere e migliorare la cultura greco-romana venne il Cristianesimo.
Un Cristianesimo – da subito – espressione di un messaggio di difesa della vita molto chiaro, che si tradusse nella condanna dell’aborto, dell’infanticidio e di tutte le forme di soppressione dei malati o degli indifesi. Oggi purtroppo la cultura cristiana, complice da una parte la secolarizzazione e, dall’altra, un inquinamento della stessa da parte di molti battezzati – distratti dalla causa immigrazionista, dalla difesa dell’ambiente e dell’animalismo – è in ritirata. Con tutte le conseguenza sociali, giuridiche e mediche del caso. A partire, come si diceva, dal ritorno in grande stile di Erode.
Un ritorno, si badi, di cui la drammatica decisione su Charlie non è che il suggello, dal momento che si è potuti arrivare a questo punto, chiaramente, è grazie delle significative premesse, la più grave delle quali sono i decenni, ormai, di aborto legale. Dopotutto, se è consentita l’eliminazione prenatale del nascituro non perfettamente sano, per quale motivo dovrebbe essere proibita quella del neonato che versa in condizioni analoghe? Perché l’aborto è legale solo se volontario mentre in questo caso, mi si obietterà, c’è la contrarietà dei genitori alla morte del piccolo. Vero.
Il punto però è che la cultura della morte, per anni, si è riempita la bocca di autodeterminazione e libertà non perché vi credesse, ma solo come mero pretesto per preparare culturalmente il terreno a quanto sta accadendo ora. Con la sentenza di morte a danno di un bambino che genitori vorrebbero poter tenere in vita – e per tentare di curare il quale hanno raccolto un milione di sterline -, ma contro cui, al momento, nessuno pare possa nulla. Perché Erode, gettata la maschera, ha ora preso il comando, pienamente consapevole di avere nell’Europa secolarizzata dell’accoglienza, dei «muri da abbattere» e dei diritti civili una nuova, formidabile alleata.
Giuliano Guzzo
—
(Fonte: http://www.giulianoguzzo.com)
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«(…) Andare davanti allo specchio e dire – quanto sono bella – potessi fare pure schifo. Perché? Mo ve lo spiego io!»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 01/03/2017
Giastin, sorriso di Dio. L’amiotrofia spinale di cui è stata affetta dalla nascita non le ha impedito di sorridere ogni giorno alla vita e al Cielo, insieme con sua sorella Rosaria (già in Cielo al momento dell’interista) e a suo fratello Cosimo, affetti dalla sua stessa malattia.
I loro genitori sono stati conquistati dal loro entusiasmo per la vita, ancora oggi felici di aver ospitato in casa tre angeli, che non hanno mai messo piede a terra, perché li avevano già messi in Cielo!
«Per iniziare una buona giornata bisogna addormentarsi prima col sorriso, poi svegliarsi la mattina, andare davanti allo specchio e dire – quanto sono bella – potessi fare pure schifo, quanto sono bella. Perché? Mo ve lo spiego io.
Nella creazione si dice che Dio ci ha creati a sua immagine, allora io penso questo, se noi diciamo che siamo brutti, offendiamo Dio che ci ha fatti a sua immagine.»
Al suo funerale (circa quattro anni dopo questa intervista) preparato da Giastin come il giornod ella sua festa più bella, in cui si sarebbe realizzato il suo desiderio più grande, quello di mettere ali per volare in Cielo, c’è stato un uomo che, sconvolto, ha visto in chiesa al momento dell’offertorio, degli angeli prendere il corpo di Giastin, consegnarlo a Maria e Maria a Gesù e Gesù lanciarla poi in alto e consegnarla al Padre.
Quando la mamma seppe di questa visione, qualche giorno dopo, impallidì: era la storia che lei si era inventata per mettere a letto i suoi figli e consolarli quando le chiedevano come sarebbe stato il giorno della loro “partenza al Cielo”.
Qui, mamma Carolina racconta e testimonia la gioia che ha ricevuto dai suoi tre angeli: Rosaria, Giastin e Cosimo.
«Dovrebbe essere il contrario, un genitore che porta i figli a Dio. Ma sono stati loro a portarmi a Dio.»
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“Mia madre si sente orgogliosa di aver difeso la vita.”
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 12/11/2015
Padre Antonio Vélez Alfar aveva il volto rigato dalle lacrime mentre ripeteva queste parole. Perché sono parole che lo facevano viaggiare nel tempo e, più precisamente, alla drammatica storia di sua madre che qualche anno prima gli aveva raccontato di essere stato concepito in uno stupro.
Una donna di fede.
Il sacerdote colombiano, parroco nella provincia di Chubut (Argentina), ha deciso di testimoniare la sua storia in seguito a una sentenza della Suprema Corte di Giustizia argentina che ha dichiarato l’aborto non punibile in questi casi.
“Mia madre” – ha raccontato il sacerdote – “era una donna di fede, devota e praticante. Diceva che, nonostante le terribili circostanze, portava nel suo grembo il miracolo di una nuova vita, una vita che Dio le aveva dato e che, per le sue convinzioni, non poteva abortire. E che se Dio aveva permesso tutto ciò, doveva avere un senso”
Stuprata dai colleghi.
La madre di Padre Antonio venne stuprata a ventisette anni da vari colleghi di lavoro, che le tesero una trappola durante una festa, la drogarono e abusarono di lei ripetutamente.
Nel dolore di non sapere chi fosse il padre del bambino, la donna venne obbligata dalla sua famiglia a sposare un vedovo che, dopo il matrimonoi cominciò a maltrattarla continuamente.
Essendo impossibile separarsi in quel contesto, la donna rimase col marito e col secondo figlio, in quanto Antonio era stato mandato dai nonni.
La storia della madre.
Racconta Padre Antonio: “Un giorno, siccome mia nonna mi diceva sempre di chiamare mio padre nonno, le chiesi come potesse essere che fosse al contempo mio padre e mio nonno.
Questo portò a una riunione con mia madre, che mi raccontò ciò che era successo. Mi disse che molti le dicevano di abortire; altri le suggerivano addirittura di vendermi, o di darmi in adozione, e c’era anche gente interessata a me. Fu molto duro per me sapere ciò, non avevo che dieci anni.
Perché proprio a me?
Un giorno Antonio si volle sfogare con Dio. “Andai in chiesa a protestare con Dio: ma perché questo è capitato proprio a me? E mentre gridavo, un sacerdote si avvicinò e mi disse che stavo facendo la domanda sbagliata: ‘Non chiedere perché ma per quale ragione’ (1). Proprio in tutta quella situazione, il Signore mi stava chiamando per fare grandi cose.”.
Sarai uno strumento del Signore.
Questo sacerdote disse al giovane Antonio che Dio scrive diritto sulle righe storte, e che sarebbe stato uno strumento del Signore. Poi gli lesse il passo di Geremia in cui Dio lo chiama ma lui resiste e il Signore gli dice: ‘Non ti preoccupare, farò tutto per te’.
“Quella conversazione mi segnò profondamente e quel sacerdote fu come un padre per me.” Dopo di ciò Antonio divenne catechista, per arrivare alla scelta del seminario, per servire il Signore come sacerdote.
(1) N.d.t. – In portoghese c’è un gioco di parole intraducibile: “Não pergunte porquê, mas para quê” che significa per l’appunto: non chiedere perché ma per quale ragione.
(Tradotto dal portoghese dall’originale pubblicato su: http://pt.aleteia.org/)
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Non vedi alternative all’aborto? Al C.A.V. ce ne sono
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 11/10/2015
Entrano insieme, giovanissimi, lei con il viso pulito, semplice, un vestitino leggero, nascosta dietro di lui. Una cosa non si riesce a coprire: un pancione in cui da 7 mesi c’è un bambino. Sono Irina e Dimitri (nomi di fantasia), 18 anni lei, 19 lui, vengono dalla Moldavia. Lei non parla l’italiano, non ha documenti, soprattutto è lontana dalla famiglia, con un figlio in arrivo. Lui racconta che qui non hanno nessuno, che la sua fidanzata non è riuscita a farsi fare nemmeno un’ecografia, tantomeno altre visite specialistiche per la gravidanza (non sanno neanche quali siano…). Alla Asl sono stati chiari: senza documenti non possono fare nulla. È per questo che sono arrivati qui, al Cav (Centro assistenza alla vita), dove i volontari cercano di sostenere famiglie e ragazze madri. Persone che non riescono a vedere alternative all’interruzione della gravidanza trovano una mano tesa pronta a far loro considerare altre possibilità.
I due fidanzati hanno già deciso di tenere il bambino e di sposarsi appena nascerà. Ma hanno bisogno di aiuto. “Sono molte le coppie che arrivano da noi in queste condizioni – spiega Francesca, responsabile del Cav Ardeatino che si appoggia alla parrocchia di S.Giovanna Antida, a Roma – per questo siamo riusciti a procurarci una macchina per le ecografie. Così insieme a dottori volontari riusciamo a dare anche un minimo di sostegno medico a chi ne ha bisogno”.
I Centri di aiuto alla Vita sono associazioni di volontari, apartitiche, di ispirazione cattolica, considerati come il braccio operativo del Movimento per la Vita. L’obiettivo è quello di aiutare le donne alle prese con una gravidanza difficile o indesiderata, oltre che sostenere giovani madri prive di mezzi o sprovviste delle capacità necessarie per fornire le cure al figlio, in modo da scongiurare l’aborto.
Le storie che si possono ascoltare in questo centro sono davvero delle più diverse. Come quella di Celestine, dello Zimbawe, ormai a Roma da 15 anni. “Poco dopo essermi sposata sono rimasta subito incinta. Io e mio marito eravamo felicissimi, lui ha un lavoro, ce la potevamo fare”. Ma quando il piccolo ha due mesi scopre di essere di nuovo in dolce attesa. “Mi è crollata la terra sotto i piedi! Come avrei potuto fare con due bambini così piccoli? Ci sarebbero bastati i soldi? Cosa avrebbero pensato le persone intorno a noi? Non sapevo come dirlo a mio marito… I miei genitori ancora non sanno della mia gravidanza!”. Tramite un’amica è venuta a conoscenza del Cav, che le ha fornito sostegno psicologico per farle accettare il bambino come un dono, perché “un figlio lo è sempre”, dice lei. Uno schiaffo alla cultura dell’egoismo che sembra dominare la nostra società.
Francesca ci dice che spesso diventare madre non è solo un problema economico o sociale per le donne, a volte “hanno bisogno di sentire che hanno qualcuno vicino, che possono essere sostenute”. Mentre ci parla arriva una telefonata: è una ragazza che chiede aiuto, perché tutti intorno a lei, famiglia, ragazzo, amici, le fanno pressioni per farle interrompere la gravidanza. Ipotesi che lei non vuole considerare. Così fissano un primo appuntamento in cui cominceranno a darle il sostegno necessario. “E’ giusto che ogni donna possa esprimere liberamente la propria vocazione alla maternità – commenta Francesca – non è giusto che debba vivere l’esperienza traumatica dell’aborto, soprattutto contro la sua volontà”.
Alle spalle dei Cav, diffusi su tutto il territorio nazionale, non ci sono interessi economici, lobby o partiti, c’è solo la volontà di sostenere la Vita; quella del nascituro, della mamma e anche quella di chi ha bisogno di riprendersi dalle gravi conseguenze dell’aborto. Per realizzare tutto ciò è necessaria la collaborazione di tutti, dai benefattori anonimi, che donano denaro, alimenti e corredini per i bimbi, ai medici, gli psichiatri e gli psicologici. Tutti pronti a mettersi a disposizione senza chiedere nulla in cambio. Se non il sorriso di una madre e della sua creatura, felici di non aver ceduto alla tentazione della morte.
(Fonte: http://www.interris.it)
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