Nel 1854 una nave salpata dall’India portò il colera in Inghilterra, scoppiò così una violenta epidemia. Da Londra il contagio arrivò a Parigi e Marsiglia. La leggerezza delle autorità sanitarie locali permise lo sbarco anche di navi che avevano a bordo uomini infetti. L’epidemia arrivò al sud della Francia e così anche in Italia (…).
A Torino l’allarme fu dato il 21 luglio: un manifesto del sindaco annunciava le precauzioni igieniche da prendere nelle case, nelle officine e nei negozi. La città creò dei “lazzaretti” per isolare i contaminati. (…)
Le autorità religiose diedero istruzioni per mobilitare il clero: misure profilattiche e igieniche, strutture per l’esercizio del ministero ai malati e ai moribondi, come anche la proibizione di lasciare la città. I cristiani furono incoraggiati a implorare l’aiuto della Vergine “Consolata” protettrice della città. Bisognava anche evitare qualsiasi raduno straordinario. Fu abolita la solenne processione del Corpus Domini.
Fin dal primo allarme, don Bosco aveva allestito il suo oratorio per affrontare il contagio. Fece fare dei lavori nei dormitori, dove erano ammassati un centinaio di giovani, per distanziare le file di letti. Si indebitò per aumentare la sua fornitura di biancheria, lenzuola e coperte. Si assicurò che tutti i locali fossero puliti e igienizzati.
Ma don Bosco credeva anche nell’efficacia dei mezzi soprannaturali: la preghiera a Maria e la conversione del cuore, evitando il peccato. A quel tempo la medicina non conosceva ancora le cause e i rimedi per quella piaga; bisognava contare soprattutto con Dio.
La città di Torino registrò più di duemila morti. L’area di Valdocco fu particolarmente colpita, con la popolazione decimata. (…) Don Bosco pensava di non aver fatto abbastanza garantendo la sicurezza della sua casa. Si appellò ai suoi ragazzi con l’approvazione delle autorità. Ci fu un primo gruppo di 14 volontari. Erano giovani: 17, 16, 14 anni. Provenivano da varie “compagnie”, i gruppi educativi creati da don Bosco coi giovani per animare l’oratorio. L’obiettivo era quello di “praticare la carità”. (…)
Quei giovani dimostravano una grande forza per sopportare il vomito, la dissenteria, gli odori, il soffocamento, i volti emaciati e pallidi, i corpi torturati. I pazienti terrorizzati dovevano essere convinti a lasciarsi condurre al lazzaretto, che percepivamo come anticamera della morte. Dopo pochi giorni, una trentina di giovani si unirono alla prima squadra di volontari. Tra essi c’era anche Domenico Savio, arrivato da poco nell’oratorio.
Per i loro pazienti, prendevano in prestito dall’oratorio biancheria, lenzuola e coperte. L’aneddoto di madre Margherita che dona la tovaglia dell’altare, resto del suo corredo di nozze, come lenzuolo non è certo una leggenda.
[Don Bosco] non dimenticava mai di chiedere prudenza e rispetto per le disposizioni dell’autorità.
Il colera scomparve nel 1884. Ancora una volta don Bosco sorprese tutti con la sua certezza che le opere salesiane sarebbero state salvate, a patto che avessero fiducia in Maria Ausiliatrice.
In agosto, rivolse le sue raccomandazioni a tutte le case salesiane in Europa e in America. Si potevano riassumere in tre punti: la preghiera, la prudenza e la carità. Alla fine dell’allarme, ebbe la soddisfazione di dichiarare che nessuna casa salesiana, nessun benefattore dei giovani, nessun fedele di Maria Ausiliatrice era stato colpito.
(Fonte: Il bollettino salesiano, rivista fondata da don Bosco nel 1877, anno CXLV, , 2 febbraio 2021)
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