Domenica 21 maggio papa Francesco ha riconosciuto le virtù eroiche di otto nuovi venerabili tra cui Maria Cristina Ogier, morta l’8 gennaio 1974 a soli diciannove anni.
Nata a Firenze nel 1955, a quattro anni le viene diagnosticato un tumore al cervello. La bambina, poi la ragazza, vivrà questa malattia senza nasconderla né ostentarla, ma vivendo la sua vita con un’intensità non comune.
Nel suo traboccamento di carità, arriva persino ad allestire un battello fluviale attrezzato come medicheria e dispensario farmaceutico con funzioni di vero e proprio mini ospedale, da inviare al Rio delle Amazzoni. Per raggiungere il suo scopo sollecitò l’aiuto dei portuali di Livorno che, colpiti dalla sua determinazione e semplicità, l’aiutarono al meglio delle loro possibilità.
Si iscrive a medicina senza poter frequentare ed entrò nel Terz’Ordine Francescano. Durante un viaggio a Lourdes – dove accompagnava i malati con l’Unitalsi – si consacra a Maria.
Semplice, genuina, nel 1971 ascoltando a scuola discorsi e pensieri sull’aborto, esortò il papà Enrico, primario di Ostetricia e Ginecologia all’ospedale Careggi, a fare qualcosa in merito.
Il risultato di questa esortazione ispirò la nascita del primo Centro d’Italia di “Aiuto alla vita”, che ispirerà il Movimento per la Vita, che si batte per i diritti del concepito e del nascituro.
Muore a diciannove anni l’8 gennaio 1974
Il suo corpo giace al cimitero delle Porte Sante a San Miniato al Monte (Firenze).
Maria Cristina ha tracciato la strada a molti che oggi difendono la vita dagli attacchi che le arrivano da più fronti.
Con coraggio non ha avuto paura di esortare, di insistere, per aprire vie al bene dove sembra che non ve ne siano.
Una giovane che non ha perso tempo e che ha vissuto con intensità la sua breve vita su questa terra e che ora dal Cielo continuerà, a suo modo, l’opera iniziata qui.
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Una giovane semplice con l’audacia di insistere per fare il bene, che non ha perso tempo…
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 22/05/2023
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«Nessuno muore, quando è con Gesù»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 22/11/2022
Fortunata, la nipote di Natuzza Evolo, racconta a Bel tempo si spera, il soprannaturale e la normalità di una santa dei giorni nostri.
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«Giulia c’insegna che non è possibile vivere una vita veramente appassionata se non spendendola per Cristo.»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 09/12/2021
La storia della piccola Giulia Zedda, innamorata di Gesù e Maria.
«Voleva vivere a colori, e abbiamo sempre vissuto a colori.»
«Non dire – non ho tempo – il tempo si trova se vuoi, per pregare, per vivere…»
«Mamma, io ringrazio Gesù perché fino a sei anni mi ha fatto vivere sana.»
«Prima di andar via ci ha chiesto di dare tutte le sue cose ai bambini meno fortunati di lei, lei che aveva dieci metastasi cerebrali…»
«Le persone con un figlio in cielo sentiranno sempre quell’oscurità che gli altri no conosceranno.»
«Lei è in Cielo, Giulia c’è, e noi dobbiamo sostenere i genitori che hanno perso un figlio.»
Dobbiamo imparare da Giulia, c’insegna che non è possibile vivere una vita veramente appassionata se non spendendola per Cristo.»
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Fratelli maggiori che ci prendono per mano e…
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 31/10/2020
La comunione dei santi spiegata ai bambini.
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«Non ho paura della morte… Vado a vedere il volto di Gesù…»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 31/08/2020
Si chiamava Graziella. Come Anna, la profetessa del vangelo, passava le sue giornate in chiesa. Signorina, aveva sposato un giovane, vedovo con 4 figli per i quali fu mamma premurosa e attenta. Presto Antonio, il marito, fu colpito da una malattia rara e gravissima che lo costrinse per il resto della vita sulla sedia a rotelle. Graziella fu il suo angelo custode. Lo accompagnò, lo curò, lo amò fino alla morte.
Era devotissima del “Volto Santo”, la cui icona si venera a Napoli, nel santuario di Capodimonte. Il giorno 10 di ogni mese partiva con un pullman carico di pellegrini per portarli ai piedi di Gesù. A Caivano, il paese in provincia di Napoli dove viveva, dopo il terremoto del 1980, sorse un quartiere nuovo per dare una casa ai senzatetto. Graziella comprese che quella nuova parrocchia necessitava di essere aiutata e cominciò a frequentarla assiduamente assieme a qualche amica.
Poco tempo dopo fui mandato dal vescovo come parroco. La conobbi che era già anziana. “Che aiuto, potrà darmi questa vecchietta buona e semplice?” pensai. Mi sbagliavo di grosso. Presto Graziella divenne l’anima della parrocchia, la nonnina di tutti. La sua borsa sembrava il cappello del pifferaio, sempre piena di caramelle, oggetti religiosi e il thermos con il caffè per il parroco. Era proprio una di quelle persone belle che tutti vorrebbero incontrare nella vita. Innamorata di Gesù, della Madonna, del Papa, dei sacerdoti.
A volte arrivava piagnucolando. “Che c’è?” le chiedevo. E lei: “Padre Maurizio, Gesù non è amato. Bisogna salvare le anime”. Come i santi mistici soffriva – anche fisicamente – nel constatare che “l’Amore non è amato”. E si dava da fare. Le famiglie la chiamavano al capezzale dei moribondi e dei defunti per essere aiutate a pregare. Gli studenti la cercavano per chiederle preghiere nei tempi degli esami. Morivo dalle risate quando la sentivo pronunciare – era semianalfabeta – il nome dell’esame per cui stava pregando.
In parrocchia presto trovò la sua vera vocazione: la buona stampa. Era lei che si faceva carico della vendita di Famiglia Cristiana e Avvenire. Si metteva all’ultimo banco con il suo carico di giornali. Ogni domenica, tenace, gioiosa, partecipava a quattro Messe e quando non poteva affidava a qualche amica i suoi giornali. Ogni persona che entrava in chiesa era da lei innanzitutto accolta con il sorriso della nonna buona. Poi subito: «Prendete Avvenire, Famiglia Cristiana. Leggete, è importante, dice padre Maurizio».
Gli anni che passavano la invecchiavano nel corpo, ma indomito lasciava il suo animo sempre di più innamorato di Gesù. Una fede granitica. Spesso la prendevo in giro: «Graziella si avvicina l’ora della resa…». E lei: «Non ho paura della morte… Vado a vedere il volto di Gesù…».
Sabato mattina si è sentita male. Prima di essere trasportata in ospedale ha consegnato a qualcuno il ricavato dei giornali venduti pregandolo di farli avere al parroco. Nel giro di poche ore si è aggravata. Don Adriano è corso a darle l’Olio degli Infermi; lei ha partecipato al rito, ha aperto le mani, ha fatto per l’ultima volta il segno della croce. Al termine, mentre recitava l’Ave Maria, ha perso conoscenza. Trasportata a casa gli angeli le hanno messo un bellissimo paio di ali ed è volata via.
Al suo funerale ha preso parte tutto il paese. La Chiesa era strapiena come la notte di Natale. A volte, scherzando, le dicevo: « Graziella, guarda che non sarò io a celebrare il tuo funerale. Ti voglio troppo bene, sono certo che non ce la farei…». E così è stato. Il giorno in cui si è sentita male stavo a letto con febbre, tosse e senza voce. Una grazia. Un sacerdote, figlio della nostra parrocchia, don Adriano appunto, ha celebrato il rito.
E ha voluto ricordare quel lontano giorno del marzo del 1992, quando per la prima volta mise piedi in chiesa. Graziella lo guardò e gli disse: « Giovanotto come sei bello, sei un seminarista?» «Che cos’è un seminarista?» le chiese don Adriano. Talenti. A tutti sono stati dati. Io non so quanti talenti Graziella abbia ricevuto in dono. Una cosa posso dire con certezza: li ha spesi tutti, fino all’ultimo centesimo, per la gloria di Dio e la salvezza del mondo.
Quante “Grazielle” ci sono nelle nostre chiese? A quante di queste persone, semplici, nascoste, umili, abbiamo il dovere di dire grazie?
La comunione nella chiesa non è facoltativa. Al contrario, è alla base del nostro essere cristiani e della efficacia della nostra testimonianza. Nel campo di Dio c’è chi semina e chi raccoglie; chi innaffia e chi concima. Ma è il Signore che fa crescere. Graziella è stata una apostola della stampa cattolica a pieno titolo. Ha reso un servizio alla nostra comunità e alla Chiesa. Gratuitamente e nel nascondimento. È passata nella nostra vita e ci ha fatto tanto bene.
Adesso, ne sono certo, sta pregando per noi e per i giornali che ha venduto per tanti anni. Mi sembra di sentirla ancora: «Prendete Avvenire, Famiglia Cristiana. Leggete, è importante, ha detto padre Maurizio…».
Dall’account Facebook di Padre Maurizio Patriciello
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«Gian non è morto disperato, ma affidato. Non se n’è andato sbattendo la porta, ma incamminandosi.»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 04/12/2019
“In fondo – come ho detto con mio fratello ieri sera – noi siamo fatti per il Cielo. Per sempre. Per l’eternità”.
Con queste parole Gianluca sintetizza l’estrema maturazione che ha vissuto nel corso di due anni di malattia, di una terribile malattia che non perdona, un osteosarcoma.
Gianluca, per gli amici Gian, è nato a Sospiro (CR) l’8 Settembre 1994, secondo figlio di Luciano e Laura, è un figlio, un fratello, un bambino, un ragazzo come tutti gli altri, si impegna a scuola, ama il calcio, tanto da intraprendere la strada del calciatore, una storia normale, niente di che, come tanti, come sempre. Nel Dicembre 2012, durante una partita, la malattia si manifesta con un pizzico, un dolore alle gambe, ma in breve peggiorerà, la diagnosi è infausta, non sono molte le speranze, nonostante gli sforzi dei medici.
Durante la malattia l’incontro con Gesù, Gian si rivede in Cristo, diventa l’alter Christus Patiens, è la vita che si manifesta nella sua pienezza proprio quando sta per finire. Tramite amici comuni incontra don Marco D’Agostino, con lui parla del Signore, diventa lampada per quel sacerdote da 20 anni, che si converte dinanzi a un ragazzo che ha meno della metà dei suoi anni. E con don Marco scrive un libro, il suo libro, la sua vita in poche pagine, in un alfabeto, è così che Gian si presenta al mondo proprio quando parte per giungere al Cielo.
Lasciamo parlare don Marco:
“Comincerò dalla “A” di accoglienza. La mia storia con Gian è iniziata così. Preoccupato di che cosa dovevo dirgli, di come presentarmi a lui, dopo che aveva chiesto di vedermi, di quanto fermarmi in casa con lui, sono uscito lavato e purificato dalla sua stessa presenza. Da subito, quella sera, con una fetta di torta e tè, soprattutto dalle sue parole e dal suo sguardo profondo, mi sono sentito subito “di casa”. Gian è stato di una semplciità disarmante, pari a quel bambino evangelico, simbolo del Regno, che sa proporsi così com’è, senza schermi o difesa.
E chiedeva a me nient’altro se non di stare, davanti a lui, così come anch’io ero. Senza la preoccupazione del colletto, dell’uomo di Chiesa, del cosa dire, del come dirlo, di quali argomenti affrontare per primi. Senza la corazza di chi si tiene a distanza. Gian è stato capace – settimana per settimana – di aprire sempre di più il rubinetto del suo cuore. Da quel deposito, apparentemente sopito, ha saputo spillare il vino buono, per l’ultima parte del suo banchetto nuziale. Gian ha aperto, anzitutto la porta del suo cuore. E da lì, da quell’entrata particolarmente intensa e ricca, ha permesso a Dio, in primo luogo, ma anche a me e a tanti altri di entrare.
Ha consegnato, gradatamente, la chiave del suo cuore, fidandosi ciecamente che, chi gli voleva bene avrebbe saputo aiutarlo, in ogni modo, qualunque cosa fosse capitata. Anche il peggio. Ha deposto la sua vita in mani, cuori, presenze accoglienti. I suoi genitori e suo fratello prima di tutto. Ma anche amici, preti, volontari, medici e infermieri.
Ha contagiato tutti quanti con la sua malattia più grave: l’amore. La sua accoglienza sembrava predicare un affidamento della vita – la sua – che, già così fragile, si avviava – e lui ben lo sapeva – verso un’inesorabile discesa. Ma era come se il tramonto dovesse diventare una nuova alba. Come se, al tempo mancante, supplisse una forza interiore tale da moltiplicare l’intensità degli incontri, la comunione d’intenti, lo scambio d’impressioni.
Per questo non perdeva tempo, non tentennava, non si annoiava, ma viveva tutto, dalla celebrazione eucaristica in casa alla visione di un film, dallo scambio d’impressioni con amici ad una merenda ad una cena intorno al polletto grigliato con le patate, con grande intensità. Nell’accogliere Dio, le persone, la vita, la stessa malattia Gian “rubava” ai suoi amici la loro voglia di vivere, si nutriva della mia poca fede, la sollecitava, desiderando essere nel cuore e nelle preghiere di molti.
Non da subito e non tutto in un momento. Eppure, incontro dopo incontro, cresceva il suo desiderio di vivere e, paradossalmente, questo si realizzava con la sua consapevolezza di morire. “Don, sto morendo. Che cosa mi attende? Quale sarà la mia ricompensa? Gesù mi sta aspettando?”. Ho avuto la sensazione che anche la morte non lo abbia colto di sorpresa. Tutt’altro.
Lui è stato accogliente, anche verso questa “sorella” così scomoda. Abbiamo potuto scrivere insieme un libro perché lui ha dato a me e a tanti ragazzi e giovani la grazia di sentirci accolti. In questo grado d’intimità interiore – è la prima volta che uso questo termine – ha fatto scaturire, da lui e da me/noi, sentimenti e pensieri che spingono ad una conversione all’accoglienza della vita stessa, qualunque essa sia, perché è dono, di Dio e dei nostri genitori.
Nella vicenda di Gian ho, poi sperimentato pià volte la “E” di essenza. Lui, spogliandosi, giorno dopo giorno, apparendo in tutta la sua fragilità e dolore, ha raggiunto il centro, il succo della vita umana e cristiana. La sofferenza lo ha maturato e purificato. Fortemente. Lo ha reso una roccia sulla quale costruire, appoggiarsi, confrontarsi. E non una volta per tutte, ma ogni giorno, ogni momento. Gian ha saputo essere un atleta della vita.
Scrivendo a Papa Francesco – lettera che ricevette la telefonata del segretario personale del Papa il 18 dicemebre 2014 – aveva detto che era in ospadale a “lottare”. La vita lo ha messo in condizione di entrare in guerra. E, nonostante momenti difficili di afflizione e di scoraggiamento, ogni giorno, quando si svegliava, ricominciava la sua lotta. Per questo ha avuto bisogno di un’arma come la fede. In questo combattimento si è allenato, silenziosamente. Perché Gian era un ragazzo semplice, pulito, servizievole, di buone relazioni a scuola e all’oratorio, nella sua parrocchia di Sospiro, in casa.
Il miracolo degli ultimi mesi della sua malattia non è stato quello della guarigione. Forse questo sarebbe stato più eclatante. La notizia della sua vicenda – che il libro Spaccato in due contiene in tutta la sua freschezza e verità – ci restituisce un Gian che sa affrontare la vita prima della morte e sa leggere, con gli occhi della fede, una malattia e un dolore dei quali diventa non amico, ma padrone.
Gian non è morto disperato, ma affidato. Non se n’è andato sbattendo la porta, ma incamminandosi. Non ha chiuso l’esistenza imprecando per un buio che non si meritava, ma desiderando un incontro con la Luce del mondo, appena contemplata nella gioia del Natale. Il miacolo vero è stato, per Gian, comprendere il “perché” di quella condizione così umanamente sfavorevole per lui e per la sua famiglia e leggerla con gli occhi della fede. Bisognoso di tutto, da un punto di vista fisico – e infermieri e volontari sanno con esattezza quanto bene ha fatto a ciascuno di loro l’incontro con Gian! – da un punto di vista spirituale risplendeva da dentro.
Quegli occhi “accesi” erano veramente la sua luce. Segni di una Presenza che sapeva illuminare anche la croce, perché già sperimentata al Calvario, duemila anni fa. Debole e fragile intuiva che quel peso, sulle sue giovani spalle, l’avrebbe potuto sopportare solmente con una medicina che non poteva essere quella prescritta dall’ospedale.
La sua fede, declinata in apertura d’animo, preghiera, accoglienza del progetto di Dio, amicizia condivisa a più livelli, celebrazione dei sacramenti, consigli che dava ai ragazzi giovani come lui, è stata l’arca di salvezza sulla quale ha potuto vivere nella tempesta della sua malattia.
Quando alla fine del 2012 l’ospedale gli ha comunicato la sentenza del suo tumore egli ha dovuto decidere di diventare un vero uomo. Non in un colpo. Giorno per giorno. Ma senza mai tornare indietro. Proprio perché è cresciuto come uomo, la fede ha trovato un terreno fecondo su cui germogliare. Io ho avuto la grazia – non saprei diversamente come chiamarla – di gustare e comprendere come un ragazzo giovane che si lascia plasmare, incontrare e raggiungere da Dio e dai fratelli, possa crescere veramente di spessore.
Gian è cresciuto e ha fatto crescere. Aveva fede e l’ha fatta tornare agli altri. Era uomo di comunione e desiderava che ci si amasse. E lo diceva, lo scriveva su WhatsApp, lo manifestava. Quella di Gian, umanamente, è una storia di dolore. Evangelicamente, una storia di grazia e di belleza. A soli vent’anni ha dimostrato che si può essere abitati da Dio e dagli uomini” (don Marco D’Agostino in: La Croce Quotidiano).
Gian muore all’ospedale di Cremona il 30 Gennaio 2015, lasciando al mondo una delle più belle testimonianze di fede e di fiducia nel Signore. Nell’introduzione al suo libro scrive: “In questo libro mi ritroverai, in ogni pagina. E io troverò te. Sento che, in Dio, siamo già amici”, ed è proprio così.
L’esperienza di questo giovane, rubato alla terra per rendere il Cielo ancor più bello di quello che è, non è stata una meteora in una fredda notte di fine gennaio, la sua luce continua ad illuminare chiunque lo incontra nelle parole del libro, nella voce dei suoi amici, nella testimonianza di don Marco, nell’amore dei suoi genitori e di suo fratello.
Gian vive oggi più di prima, il suo nome, i suoi occhi pieni della vera Gioia, il suo sorriso contagioso ha varcato le soglie della sua casa di Sospiro per raggiungere tanti ragazzi e ragazze come lui, ma anche tanti adulti, che conoscendolo si innamorano della splendida, semplice bellezza del suo cuore. Gian, per un caso del destino, è divenuto come un sospiro, come quella “brezza di vento leggero” che, dopo la tempesta, è segno della presenza di Dio.
Io l’ho incontrato per caso, un volto sulla copertina di un libro, e siamo diventati subito amici, ora sta sempre accanto a me, lo guardo, lo prego, lo sento vicino, compagno nel mio cammino verso il Signore. La breve vita di Gian è stata come un sorriso, dura poco ma riempie il cuore di gioia, Gian è il sorriso di Dio all’umanità afflitta, se riusciamo ad entrare in quel sorriso possiamo scoprire il segreto della felicità.
Gian, amico mio, amico nostro, prega per noi.
Per approfondire:
Gianluca Firetti e don Marco D’Agostino, Spaccato in due. L’alfabeto di Gianluca, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015.
Don Marco D’Agostino, Gianluca Firetti. Santo della porta accanto, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016.
(Fonte: fonte: giovanisanti.wordpress.com)
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«Dio vi aspetta in quei momenti della vostra vita in cui non avete detto “se” e avete detto “si”!»
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 04/11/2019
Enrico parla di Chiara, colei che sapeva far spazio alla grazia…
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Il segreto per diventare santi
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 24/10/2018
Fare la volontà di Dio è il segreto per diventare santi. Scommetto che i tuoi professori non sapevano questa chicca.
Ma vorrei esplorare un altro modo per guardare ai santi. Il mio preferito è Leopoldo Mandic. I santi sono saggi, e vediamo la loro saggezza nel modo in cui vivono. Quindi un altro modo di guardare ai santi è quello di considerare il modo in cui hanno vissuto le loro vite. Le loro scelte di vita sono piene di saggezza e possono insegnarci come vivere.
Tornando al mio santo preferito, padre Leopoldo nacque a Herceg Novi, in Montenegro. Era molto basso, solo un metro e cinquantacinque, il suo santo preferito era san Francesco, era spesso malato e aveva diversi difetti di pronuncia.
Sebbene volesse diventare missionario per convertire i suoi fratelli ortodossi, finì migliaia di chilometri lontano a Padova. Dio gli rivelò la sua missione di confessore. Ascoltava le confessioni per una decina di ore ogni giorno, ed era davvero misericordioso. Attraverso questo ministero riportava la gente a Dio, assolvendo i loro peccati.
Padre Leopoldo era noto anche per la sua devozione a Maria, come molti altri santi, e per il fatto che tutta la sua giornata ruotava attorno alla santa Messa e il resto della giornata era tutto un grande rendimento di grazia per aver potuto ricevere Gesù nella santa Comunione.
Era un uomo di preghiera, un uomo che amava Gesù e Maria, un uomo compassionevole, che perdonava, un uomo umile, un uomo pieno dell’amore di Dio!
Aveva inoltre il dono di leggere i cuori, e con lui avvenivano i miracoli. Un giorno a un amico che gli chiedeva come mai così tanta gente accorresse al suo confessionale, disse: “Non è colpa mia, hanno così tanta fede in Dio, per la loro fede, Lui ascolta le loro preghiere. Come potrei mai arrivare da solo a tutto ciò?”
Il 30 luglio 1942 mentre preparava la Messa, padre Leopoldo cadde a terra. Venne portato nella sua stanza per i riti di passaggio. I frati al suo capezzale cominciarono a cantare il Salve regina e videro che padre Leopoldo stava morendo proprio mentre cantavano “o clemente, o pia, o dolce vergine Maria!”.
Venne proclamato santo da Papa Giovanni Paolo II nel 1983.
Miracoloso e umile san Leopoldo, prega per noi affinché possiamo vivere imitando le tue grande virtù di fede, umiltà e amore per Dio.
Saggio san Leopoldo prega per noi affinché possiamo vivere imitando le tue scelte di vita di andare regolarmente a Messa, regolarmente alla Confessione e di onorare la santa Madre di Dio.
San Leopoldo, amante della volontà di Dio, prega per noi affinché possiamo vivere come te, cercando solo di fare la volontà di Dio. Amen
(Tradotto da http://www.johnthebaptistmoora.com/346443107/6671403/posting/)
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Maria Elisabetta Hesselblad, nata luterana in Svezia, e morta cattolica a Roma, ora santa in Cielo
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 07/06/2016
Il 5 giugno 2016 è stata canonizzata a Roma Maria Elisabetta Hesselblad, nata luterana a Faglavik, Svezia, il 4 giugno 1870 e morta cattolica a Roma il 25 aprile 1957, nel convento di Santa Brigida, dopo aver girato il mondo.
Quinta di tredici figli, Maria Elisabetta ha convissuto ogni giorno della sua vita con i dolori atroci del Morbo di Chron, che le provocavano ulcere e sanguinamenti senza fine. Nonostante la sofferenza personale, non ha mai smesso di dedicarsi agli altri, fin dall’adolescenza, quando in cerca di fortuna si è trasferita a New York, lavorando come infermiera. Ed è proprio curando una malata irlandese cattolica che Maria Elisabetta si incuriosisce per quella fede così diversa dalla sua, rigida, luterana.
Non capiva che cosa fosse quella strana collanina da cui la malata non voleva separarsi e che altro non era se non un rosario. La santa svedese non l’aveva mai visto perché la sua religione non prevede la devozione alla Madonna, spiega a tempi.it Aldo Maria Valli, giornalista e vaticanista Rai, che ha raccontato la storia della santa nel libro La ragazza che cercava Dio (Ancora, 160 pagine, 15 euro).
Perché si è interessato alla vita di Maria Elisabetta?
Per caso, perché come tanti altri passanti ero attirato dalla bellezza del convento di Santa Brigida, in piazza Farnese, nel cuore della Capitale. Con il suo bianco candore e il suo campanile l’edificio svetta sulla piazza. Un giorno ho bussato e mi hanno aperto le suore brigidine, inconfondibili per via del loro copricapo, un velo nero con una croce bianca di lino cucita sopra. Il silenzio e la pace che regnano in quel luogo di preghiera contrastano molto con il rumore della piazza, sempre brulicante di persone. Sono state proprio loro, in seguito, a chiedermi di narrare la vita di Elisabetta, beatificata nel 2012, e appena fatta santa. Grazie al dialogo con madre Tekla, che oggi dirige l’ordine, è nato questo libro.
Fin da bambina la vita della santa sembra piena di premonizioni sul suo destino.
La Svezia in cui è cresciuta Maria Elisabetta era molto diversa dallo Stato che conosciamo oggi: era un paese povero, dal quale tutti fuggivano, per lo più diretti in America. Già tra i banchi di scuola, da piccola, la santa si chiede come mai i cristiani fossero divisi in tante fedi, pur avendo letto nella Bibbia l’espressione “un unico ovile”. Per lei sarà sconvolgente vedere come gli irlandesi cattolici siano attaccati ai loro rosari, simbolo della fede nella Madonna che lei luterana non aveva mai conosciuto. Grazie all’amicizia con un padre gesuita intraprenderà il cammino fino alla conversione e passo dopo passo prenderà consapevolezza di voler seguire i dettami di santa Brigida, svedese come lei.
Santa Brigida è vissuta nel 1300, santa Maria Elisabetta invece ha visto i due conflitti mondiali. Quali sono i punti in comune tra le due donne?
Io penso che entrambe siano state due sante molto concrete, molto impegnate a servire Cristo piuttosto che a farsi spaventare dalle difficoltà del clima in cui stavano vivendo. Santa Brigida ha assistito all’inizio dello scioglimento della Chiesa, eppure ha continuato a rimanere fedele ai suoi principi, fatti di obbedienza, austerità, preghiera. Santa Maria Elisabetta invece ha visto il mondo spaccato dalla guerra, eppure non ha avuto paura, e lo ha dimostrato ospitando nel convento di piazza Farnese tanti ebrei che rischiavano la deportazione. Inoltre, ha continuato a lottare ogni giorno con gli atroci dolori provocati dalla sua malattia, senza mai dar retta ai medici che le dicevano di riposare o fermarsi.
Il miracolo che ha aperto la strada alla sua beatificazione è avvenuto nel 1985 e ha coinvolto proprio una suora brigidina, di origine indiane, affetta da una grave forma di tubercolosi ossea. Il secondo miracolo, quello che l’ha resa santa, è accaduto invece nel 2015, e riguarda un bambino cubano affetto da tumore al cervelletto.
È particolarmente significativo che il miracolo definitivo riguardi un bambino di Cuba, per quello che Cuba ha rappresentato per la religione cattolica. Nel 2012, quando Maria Elisabetta era appena stata fatta beata, ho seguito il viaggio di papa Benedetto XVI a L’Avana. In quell’occasione mi sono recato al convento delle Brigidine, una roccaforte di silenzio e preghiera nelle strade animate e colorate della città. Mi ha molto colpito. E mi ha colpito ancora di più sapere che era stato proprio un bambino cubano il destinatario della grazia. Nel febbraio 2014 Carlos Miguel, dopo tre lunghissimi interventi, continuava a peggiorare e a soffrire. Allora una suora brigidina del convento di L’Avana ha proposto ai genitori di pregare l’allora beata Maria Elisabetta, al cospetto di una sua reliquia. Dopo qualche giorno Carlos riprese a camminare, fino a guarigione completa e rapida.
Fonte: http://www.iltimone.org/
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“Domando all’Altissimo: Dove abiti? Egli mi risponde: cerco ogni giorno una nuova dimora… Sono felice in un anima bassa, in un presepio.”
Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 18/01/2016
Un villaggio arabo di Terra Santa, una coppia di sposi poveri ma pieni di fede, e un pellegrinaggio a Betlemme: è il contesto in cui sboccia il “fiore di Galilea”, suor Maria di Gesù Crocifisso, al secolo Mariam Baouardy, che il Papa ha canonizzato il 17 maggio 2015 insieme ad altre tre Beate.
La vita straordinaria di questa carmelitana, nata nel 1846 ad Abellin, non lontano da Nazareth (allora nella Siria dominata dagli Ottomani) è strettamente legata alla Vergine, alla quale fu consacrata. I genitori infatti, che prima di lei avevano perso uno dopo l’altro 12 figli, fecero un voto e un pellegrinaggio a piedi alla grotta della Natività per chiedere il dono di una figlia; per questo, in ringraziamento, offrirono alla Madre di Dio l’equivalente in cera del peso della bambina.
Fin dall’infanzia, Mariam manifestò doni di grazia particolari, ma soffrì pure prove e tribolazioni di ogni genere; rimasta orfana a tre anni, andò poi a lavorare come domestica, preferendo le famiglie più povere, per le quali chiese persino l’elemosina; fu sospettata di furto, finì in prigione. A 17 anni ebbe la prima estasi.
L’ingresso al Carmelo, a Pau in Francia, all’età di 21 anni, fu preceduto dagli anni vissuti come figlia di S. Giuseppe, (“prima di divenire figlia di Santa Teresa”, le aveva rivelato la Madonna): per 2 anni fu postulante tra le suore di San Giuseppe dell’Apparizione, a Marsiglia.
La promessa di verginità, la fece all’età di 13 anni, quando proposta in sposa a un egiziano, si tagliò i capelli in segno di consacrazione, scatenando la furia dello zio, che per questo la umiliò e la trattò come una serva. Di lì a poco, Mariam arrivò alle soglie della morte: in risposta ad un turco che voleva convincerla a convertirsi all’islam, si proclamò figlia della chiesa cattolica.
Per questo il servo musulmano le tagliò la gola. Furono “le nozze di sangue”, l’8 settembre 1859. In seguito racconterà di essersi trovata in cielo; a restituirle la vita “un’infermiera vestita di azzurro” che la curò con delicatezza straordinaria, e dalla quale ebbe rivelazioni sulla sua vita; dichiarò anni dopo, che si trattava della Vergine. A prova dell’accaduto le rimase sempre la voce rauca, una cicatrice di 10 centimetri sul collo, e fu accertato che le mancavano persino alcuni anelli della trachea. Come constatò un celebre medico di Marsiglia, sebbene ateo, “doveva esserci un Dio, perché non avrebbe potuto sopravvivere in quelle condizioni, senza un miracolo”.
Nella sua vita intensa e tormentata, ha viaggiato dai sentieri della Galilea ad Alessandria, a Beirut, alla Francia, fino a Mangalore in India, dove fu la prima carmelitana a fare la professione, all’età di 24 anni, nel 1871. Tornò poi a Pau, a pochi chilometri da Lourdes; di lì nel 1875 partì per la sua Terra Santa.
Per l’aspetto di fanciulla le consorelle la chiamavano “la piccola araba”, lei però si definiva “piccolo nulla”. Fu proprio lei – che parlava a stento il francese, e non capiva certo di architettura – a descrivere il progetto e dirigere i lavori per la costruzione del monastero che doveva sorgere a Betlemme: come una torre, nel luogo indicatole in visione dal Signore, su una collina, prospiciente la Natività. Fece profezie, ebbe persino una rivelazione sul luogo in cui “il Signore spezzò il pane”, Emmaus Nikopolis, a circa 30 km da Gerusalemme, in seguito alla quale furono effettuati gli scavi e trovati resti importantissimi.
Malgrado le molte grazie ricevute, mantenne sempre l’obbedienza ai superiori, “obbedienza fino al miracolo”, fin dopo la morte: fu questa la prova che tutto veniva da Dio. Nella sua semplicità, chiamava le stimmate e le manifestazioni della Passione, che viveva nel suo corpo, “la mia malattia”, e chiese alla sua cara suor Veronica di starle lontano, perché non ne fosse contagiata. Talora invece, svegliandosi dalle estasi si scusava per la sua “pigrizia”.
Ma la passione che viveva, fu compresa meglio dopo la sua morte, avvenuta il 26 agosto del 1878, per una cancrena causata da una caduta, avvenuta portando l’acqua agli operai. Si spense tra dolori indicibili nel monastero in costruzione sulla collina del re Davide. Quando venne estratto il cuore, fu rilevata la cicatrice di un ferita profonda e non recente. Il suo cuore fu “transverberato” come quello di altri santi, tra cui la sua madre S. Teresa d’Avila.
La vita di Mariam ha coinciso con il pontificato di Pio IX che chiamava “mio padre”. E fu perfetta coetanea di Bernadette Soubirous. Con la santa francese, oltre al fatto di essere illetterata, condivide la grandissima umiltà, che ha lasciato a bocca aperta intellettuali e sapienti. Il suo biografo Amedeo Brunot si disse “impressionato dal fascino esercitato da questa misteriosa araba su tanti intellettuali cattolici: Maurice Barrès, Léon Bloy, Francis James, Julien Green, Jacques Maritain, Louis Massignon, René Schwob… Non può essere segno di un messaggio universale? Dai suoi gesti, dalle sue parole, dalla sua persona si diffonde un forte profumo biblico… “
Straordinari i pensieri della piccola carmelitana sull’umiltà:
“
Domando all’Altissimo: Dove abiti? Egli mi risponde: cerco ogni giorno una nuova dimora… Sono felice in un anima bassa, in un presepio. Domando sempre a Gesù dove abita – In una grotta; lo sai come ho schiacciato il nemico? Nascendo così basso…”.
E ancora:
“Oggi la santità non è la preghiera, né le visioni o le rivelazioni, né la scienza di parlar bene, né i cilici; né le penitenze; è l’umiltà”.
“Nell’inferno –disse la religiosa- si trovano tutte le specie di virtù, ma non l’umiltà; in Paradiso si trovano tutte le specie di difetti, ma non l’orgoglio”.
Significativo il fatto che proprio Mariam, così piena di grazie straordinarie, metteva in guardia dalle cercare rivelazioni e cose sorprendenti. “Non andate a vedere e consultare qui e là lo straordinario, altrimenti “la vostra fede s’indebolirà”, raccomandava da parte del Signore. “Se vi si dice: la Madonna appare qui o là; vi è un’anima straordinaria in tal luogo, non vi andate… Il Signore vi dice: Sii fedele alla fede, alla Chiesa, al Vangelo. Se sarete fedele alla Chiesa, al Vangelo, Egli sarà sempre con voi e non vi lascerà mai.”
Figlia della sua terra, cantò nello stile orientale – e con le immagini semplici, che conosciamo dalle parabole e dai salmi – la bellezza del creato, l’amore del Creatore e la fragilità dell’essere creatura. “Considerate le api; esse svolazzano di fiore in fiore, entrano poi nell’alveare per comporre il miele. Imitatele; cogliete dovunque il succo dell’umiltà. Il miele è dolce; l’umiltà ha il gusto di Dio; fa gustare Dio”.
E’ per l’umiltà di “questa piccola illetterata” che l’intellettuale ebreo, convertito al cristianesimo, René Schwob espresse l’auspicio che ella “possa diventare la patrona degli intellettuali, una volta avvenuta la canonizzazione. Essa è l’ideale che li può liberare dall’orgoglio.”
Di famiglia maronita, battezzata ed educata nella chiesa greco-cattolica, carmelitana, Mariam porta in dote alla chiesa universale la ricchezza dell’Oriente cristiano e una particolare devozione allo Spirito Santo. “Il mondo e le comunità religiose – disse – trascurano la vera devozione al Paraclito. Per questo vi è l’errore, la disunione, e non vi è la pace. Non si chiama abbastanza la luce come deve essere chiamata. Anche nei seminari è trascurata. Chi invocherà lo Spirito Santo, non morrà nell’errore”.
E al Papa scrisse: “Mi è stato detto che, nell’universo intero, bisogna stabilire che ogni sacerdote dica una messa dello Spirito Santo tutti i mesi. Coloro che vi assisteranno avranno una grazia e una luce particolarissima”. Venti anni dopo, Leone XIII con l’enciclica “Divinum illud munus” prescrisse la novena allo Spirito Santo in preparazione alla Pentecoste.
Bellissime le invocazioni di Mariam allo Spirito Santo: “Sorgente di pace, di luce vieni ad illuminarmi; ho fame vieni a nutrirmi; ho sete, vieni a dissetarmi; sono cieca, vieni a illuminarmi; sono povera vieni ad arricchirmi; sono ignorante vieni ad istruirmi. Spirito Santo mi abbandono a te”.
Fonte: Zenit
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