FERMENTI CATTOLICI VIVI

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Posts Tagged ‘#siallavita’

«Lo spilungone innamorato»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 01/04/2019

Una scena dolcissima. Un ragazzo, alto, capelli lunghi e biondi, tiene la mano agganciata a quella della sua ragazza. Avanzano dondolandosi, quasi danzando. Scherzano, si fanno le coccole. Ogni tanto si fermano, si guardano negli occhi, si abbracciano. Poi riprendono a saltellare, a correre, a rincorrersi. A fare girotondi. C’è poco da fare, le persone innamorate fanno più bello il mondo. Guardo meglio, mi sembra di riconoscere il giovanotto. E’ lui, è proprio lui, Alberto. Il mio Alberto.

La mente allora inizia a galoppare, va indietro nel tempo. Era una mattina di primavera, bella e luminosa. Me ne stavo seduto sul sagrato di una chiesa ad aspettare un amico. Una donna che non conoscevo, passando, mi salutò con cordialità. Fece pochi passi, poi ritornò indietro: «Padre, mi scusi – disse – sento il dovere di dirle una cosa importante. Sara, la figlia di un’amica è rimasta incinta. Il fidanzato, appena saputo la notizia, ha messo le ali e non si è fatto più vedere. Sara ha deciso di abortire. Se può, cerchi di aiutarla». Annotai nome e indirizzo.

Un’ora dopo bussai alla porta di Sara. Mi presentai, ma mi accorsi che sia lei che la sua famiglia mi conoscevano già. Spiegai loro il motivo della mia visita. Rimasero meravigliati ma accettarono di parlare. Sara era distrutta. Un mare di lacrime e di amarezza. All’improvviso le era caduto il mondo addosso. Portava in grembo un figlio, suo figlio, che avrebbe potuto essere la sua gioia ma che adesso rappresentava il suo tormento. Non era facile per lei accettare quella gravidanza inaspettata. Michele, il fidanzato, aveva fatto perdere le sue tracce e lei era tanto giovane.

“Come faccio, padre? Se ci fosse anche lui sarebbe diverso, insieme avremmo affrontato i problemi, ma da sola come faccio?” Povera figlia, aveva ragione da vendere. Non è facile a 20 anni diventare mamma senza il sostegno di chi, fino al giorno prima, giurava di amarti. “Hai ragione, Sara; ricordati però che noi ci siamo e non ti abbandoneremo. Se avrai il coraggio di far nascere il bambino che porti in grembo, ti assicuro che non te ne pentirai. Fidati. La vita è troppo bella, unica, preziosa per gettarla via. Con il tempo le cose cambieranno, solo se decidi di abortire non potrai più tornare indietro”.

Sara passava da uno stato d’animo a un altro alla velocità del lampo. A momenti di ansia e depressione ne alternava altri di speranza e di fede. Mille dubbi le schiacciavano il cuore. La paura era tanta. Povera ragazza. Aveva riposto fiducia nel suo Michele, gli aveva concesso tutto, e lui, nel momento più delicato, l’aveva abbandonata. Alla delusione per l’amore perduto si aggiungeva adesso la paura di diventare una ragazza madre.

La sua mamma in un angolo piangeva. “La vita è tua, Sara. Devi decidere tu che cosa fare. Sappi che noi, qualsiasi sia la tua scelta, non ti abbandoneremo”. Che fare? Guardavo Sara con tenerezza immensa. In cuor mio pregavo. Il pensiero correva a tutte le ragazze come lei ingannate, deluse e abbandonate. Povere ragazze sulle quali cade tutto il peso della gravidanza, della maternità o la lacerante scelta di eliminare il bambino.

Sara era credente anche se con la chiesa e i sacramenti non aveva troppa confidenza. Però pregava. Si, sapeva bene che l’aborto era un delitto. Sapeva che anche suo figlio aveva il diritto di nascere. Sapeva tutto, ma era decisa a tutto. L’aborto in quelle ore le sembrava l’unica soluzione per uscire da quel labirinto in cui era finita. Sembrava proprio che lo spazio per la speranza andasse scemando. Ci incontrammo ancora.

Dopo i giorni dell’incertezza e dell’angoscia, dopo le lacrime versate e le preghiere innalzate al Signore della vita, Sara prese la sua decisione. Suo figlio sarebbe nato. “In questo mondo tanto grande ci sarà posto anche per lui”, disse.

Da quel giorno, come per incanto, divenne più serena. Alberto nacque. Ebbi la gioia di battezzarlo. Mantenemmo la promessa fatta. Gli anni iniziarono a volare. Una domenica mattina, con il giglio in mano, elegante nel suo vestitino bianco, emozionato, ricevette per la prima volta Gesù nell’Eucarestia. In seguito la sua famiglia cambiò casa e non ebbi più modo di vederlo.

L’ho incontrato l’altro giorno. Uno spilungone innamorato e felice. Luminoso e bello come quella mattina di tanti anni prima, quando, senza saperlo, la Provvidenza mi aveva dato appuntamento sul sagrato di una chiesa. Sii felice, Alberto, figlio mio. Padre Maurizio Patriciello.

(Dall’Account Facebook di padre Maurizio)

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«Non siamo qui in un caso di accanimento terapeutico»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 27/04/2018

La dottoressa Matilde Leonardi, neurologa, direttore del centro ricerche sul coma istituto BESTA di Milano fa chiarezza sulla situazione di Alfie.

 

«Non cambia la prognosi, ossia cosa succederà di Alfie, ma cambiano due elementi di questa vicenda:

Il primo, noi come istituto neurologico BESTA ci siamo offerti dall’inizio di poter affiancare i colleghi inglesi in uno spirito di collaborazione scientifica – perché nelle malattie difficili la scienza non ha confini – e dovrebbe essere lo stesso anche nella circolazione dei pazienti, perché parliamo di malati che cercano le migliori cure e qui non è una cura per guarire, qui si tratta di far accettare questo bambino all’interno di un ospedale, due ospedali italiani hanno già detto che sono disponibili ad accettarlo, primo tra tutti il Bambino Gesù di Roma.

Accettarlo per fare che cosa? Per guardare con una cura palliativa anche il percorso che va verso la fine, non decidendo che la fine debba essere stabilita in un momento specifico per sentenza.

Non siamo qui in un caso di accanimento terapeutico, questo va detto molto chiaramente, non siamo in accanimento terapeutico che vuol dire dare una cura sproporzionata rispetto alla condizione clinica del bambino, qui il “best interest” per l’ospedale è la morte del bambino.

Qui bisogna riflettere anche a tutti voi italiani che siete qua, rispetto a questa condizione riguardo anche a un altro punto: come genitori, se noi fossimo nella stessa situazione, non avremmo il diritto di poter dire – voglio portare il mio bambino da un’altra parte, dove morirà, ma morirà assistito in una maniera che voglio decidere io. Questa limitazione della capacità dei genitori la trovo una cosa gravissima.

Se posso aggiungere un’ultima cosa, la differenza tra sistema italiano e sistema inglese, che mi è stata chiesta più volte. Sono molto bravi, hanno fatto molte indagini diagnostiche, credo che il bambino sia stato trattato bene dai colleghi inglesi, sia dalle nurse che dai medici, il bambino non aveva piaghe da decubito e non aveva segno di lesione, ma c’è una grandissima differenza: in Italia quando c’è un caso del genere non siamo in caso di accanimento terapeutico, noi lo assisteremmo, anche fosse per vent’anni e lo assisteremmo anche se fosse di una nazionalità straniera, in Inghilterra invece hanno deciso che questo bambino dev’essere soppresso (sospeso?) per una sentenza e non per un parere medico

 

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«Chi può dire che non fosse una condizione di vita? Era vita anche quella, la mia volontà era che non mi staccassero le macchine.»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 14/12/2017

Avere vent’anni significa vivere una vita dinamica e coltivare sogni per il futuro. È stato così anche per Sara Virgilio, oggi quarantatreenne, fin quando un pirata della strada la falciò sulle strisce pedonali in pieno centro abitato, nella sua Salerno.

Il dolore, la paura, gli ospedali, il coma, una vita che sembrava perdersi. E che invece è tornata a librare non senza difficoltà. Quella di Sara Virgilio è una testimonianza che lascia il segno, un manifesto contro la “cultura della morte” che qualcuno, in questi giorni di dibattito sulla legge sul biotestamento, vorrebbe – spiega lei stessa a In Terris – “camuffare da diritto”.

La storia

Era il 1994 quando Sara divenne “una vittima della strada”. Dopo il violento impatto con l’automobile, rimase atterra sulle strisce pedonali. “Ebbi una serie di fratture ed entrai in coma – racconta -. Fui trasportata in eliambulanza da Salerno al Policlinico Gemelli di Roma, dove il caso clinico fu trattato secondo protocollo”.

Sara rimase in coma per circa un mese. “Al di là della durata del coma, è l’intensità che conta”, spiega. Si tratta di “una condizione non facile da descrivere, perché chi la vive sa di essere in coma, vorrebbe comunicare con l’esterno ma non può”. Le sono rimasti oggi “solo alcuni frammenti di ricordo”, spiega che non sentiva dolore e che non sempre aveva “una percezione chiara di ciò che avveniva”.

Ma bastano quei frammenti per inquadrare bene la situazione. “Ci furono diverse complicazioni, tra cui un’emorragia celebrare e una polmonare”, afferma Sara. Che aggiunge: “I medici non mi avevano dato grandi speranze di sopravvivere”.

Eppure, nei suoi sprazzi di lucidità era forte l’intento di “essere considerata una persona”. Sara racconta che “volevo uscire da quello stato e far capire agli altri che c’ero, che avevo una dignità e che stavo lottando per svegliarmi”. “Avvertivo – continua – la presenza di mia madre, lei che entrava nella stanza e che mi parlava”.

Voglia di vivere

Sara avrebbe voluto risponderle, ma si sentiva – afferma – “prigioniera del mio corpo”. Una condizione che, tuttavia, anziché fiaccare la sua voglia di vivere, le diede una “forza mai immaginata prima”. “Chi può dire – si chiede – che non fosse una condizione di vita? Era vita anche quella, la mia volontà era che non mi staccassero le macchine”.

Una forza che è rimasta salda anche dopo il risveglio. “Quello fu il momento in cui iniziai a sentire dolore”, racconta. Fu un periodo tribolato, non sapeva in che condizioni sarebbe sopravvissuta. All’inizio era bloccata sul letto, poi fu messa su una sedia a rotelle e lentamente riacquisì l’uso della parola. “I dolori erano spesso lancinanti – ricorda -, non sono mancati i momenti di sconforto, ma fu importante il sostegno dei miei genitori e mai ho pensato di voler morire”.

Oggi Sara ha una laurea in Biologia, lavora ed è felice. Anche se non mancano gli strascichi di quell’incidente avvenuto ventitré anni fa. Entra ed esce dagli ospedali. “Appena una settimana fa è terminato un ultimo ricovero”, afferma.

Lo sguardo sul Senato

In Senato prosegue l’acceso dibattito sulla legge sul Biotestamento. Una questione che tocca Sara personalmente. Prima dell’incidente, le era capitato di chiedersi come avrebbe reagito se si fosse trovata in una condizione di salute disperata. “C’è però una differenza sostanziale – riflette oggi -: un conto è porsi questa domanda quando si è sani, un conto è essere infermi”.

Sara spiega che “quando la condizione è estrema, anche se l’esperienza è vissuta in maniera diversa da persona a persona, l’istinto è quello di aggrapparsi alla vita con tutte le proprie forze”. Secondo Sara non è possibile prevedere come si reagirebbe in determinate condizioni, per questo le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) rappresentano un pericolo, “non danno spazio al ripensamento”.

Come nasce la “cultura della morte”

Il problema, secondo Sara, è anzitutto culturale. “Oggi si pensa che la vita è tale solo quando si può viaggiare e correre – afferma -. Ma non è così. La persona ha dignità anche quando è costretta su un letto d’ospedale”.

E ancora: “Si sta diffondendo un’idea utilitaristica della vita umana: nel momento in cui non siamo più in grado di produrre, diventiamo un costo e veniamo tolti di mezzo. È così che nasce la ‘cultura della morte’ camuffata da diritto”, che si traduce “nella fretta ad approvare la legge sulle Dat”.

Secondo Sara, il malato chiede di morire “quando si sente lasciato solo”. Pertanto è fondamentale “la vicinanza e la cura degli altri”, nonché “strutture ospedaliere in grado di accogliere e sostenere anche i casi più disperati”. Ecco allora – osserva – “che più che aiutare le persone a morire, sarebbe opportuno che la politica investisse per seguire i pazienti in strutture adeguate e non farli sentire abbandonati”.

Leggi che minacciano la vita

È un tema – ci tiene a sottolineare Sara – che si collega a quello dell’aborto. “In nome della salute delle donne, sta avvenendo – la sua riflessione – una strage di innocenti nella pancia materna. Bisognerebbe mettere invece le donne nelle condizioni, economiche e sociali, di poter avere figli senza sentirlo un peso ma un dono”.

Il suo è dunque un appello, contro la “cultura della morte” promossa da leggi volte “a distruggere la vita e la famiglia”. È un grido che è entrato nei palazzi istituzionali, nel febbraio scorso ha parlato in Senato in una conferenza organizzata dall’Associazione ProVita Onlus. È un inno alla vita che in queste ore torna più che mai attuale.

[Fonte: https://www.interris.it/%5D

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«La vita di Gregorio è un lume e come tale non possiamo tenerlo sotto il moggio»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 04/07/2017

«Ci chiamiamo Jacopo e Giuditta Coghe, ci siamo sposati il 28 Dicembre 2008 e quel giorno sapevamo che Dio Padre ci avrebbe mostrato meraviglie, ma non avremmo mai potuto immaginare di vedere i Cieli aperti sopra di noi. Dopo circa due anni di matrimonio sembravano non arrivare figli, cercammo perciò di capire la causa di questa infertilità, ma gli esiti degli esami non erano buoni.

Ci recammo allora a Norcia, al santuario della casa natale dei Santi Benedetto e Scolastica dove chiedemmo a Dio la Grazia di donarci un figlio, promettendo di consacrare a Lui la sua vita. Pochi giorni dopo ci sottoponemmo ad una visita presso il Policlinico Gemelli e qui ci venne dato esito negativo sulla possibilità di generare senza l’aiuto di trattamenti medici.

Era il 4 Ottobre del 2010 e nel grembo di Giuditta era già vivo il nostro primo figlio, Benedetto, ma noi ancora non lo sapevamo. Questo Dono che Dio ci stava facendo cominciò immediatamente a portare frutti perché rafforzò la nostra fede e ci permise di ripensare tutte le nostre priorità e adeguare i nostri progetti all’accoglienza di una nuova vita. Prendemmo quindi con gioia la decisione che Giuditta non avrebbe più lavorato per dedicarsi completamente alla famiglia. Non volevamo rinunciare nemmeno in parte all’impegno e alla gioia di crescere personalmente nostro figlio.

Il 9 Giugno 2011 nacque Benedetto, dopo un lungo travaglio e varie complicazioni durante il parto. Il suo arrivo fu per tutta la famiglia una gioia indescrivibile e accrebbe ancora di più in noi il desiderio di moltiplicare questa Grazia. Così dopo dieci mesi dalla sua nascita scoprimmo di aspettare la nostra secondogenita, Brigida, nata anche lei di parto cesareo e viva miracolosamente nonostante un nodo vero al cordone ombelicale: era il 4 Gennaio del 2013.

L’arrivo di questa nuova creatura ci insegnò che ogni figlio che viene al mondo non ci toglie nulla, anzi dona, moltiplica e aumenta tutto: l’amore, la Provvidenza, le energie e le gioie di ogni membro della famiglia. Ci siamo resi conto di quanto ogni momento passato con i nostri figli sia un dono, mentre intorno a noi l’accanimento contro la vita e l’odio per la famiglia aumenta.

L’esperienza di crescere i nostri figli in questa società disorientata e assoggettata ad un relativismo assoluto ci convinse ad impegnarci attivamente in difesa della famiglia naturale e della libertà di educazione, e, in questi mesi d’intenso lavoro e proficuo sacrificio, Dio Padre volle portare avanti la Sua opera con noi: l’8 Ottobre del 2013 scoprimmo infatti di aspettare il nostro terzo figlio. A sole 8 settimane di gestazione però Agostino fu richiamato in Cielo.

Professor Giuseppe Noia, neonatologo e ginecologo presso il Policlinico Gemelli di Roma

La separazione da lui fu una grande sofferenza, ma la certezza del valore inestimabile della Vita umana già dal grembo materno, a prescindere dalla sua durata, è stata per noi di enorme consolazione. Dopo un solo un mese da questi fatti scoprimmo di aspettare il nostro quarto figlio, Gregorio. Questa volta la gravidanza iniziò senza apparenti problemi, ma verso la dodicesima settimana di gravidanza Giuditta cominciò ad accusare dei dolori. Perciò ci recammo all’ospedale di Terni, sua città Natale, per una visita di controllo: era il 3 Aprile del 2014.

I medici capirono subito che c’erano seri problemi, infatti il liquido amniotico era praticamente assente. Fu ipotizzata una rottura del sacco e Giuditta fu ricoverata e costretta all’immobilità assoluta. I medici ci dissero che il bambino sarebbe morto entro poche ore e con estrema naturalezza ci consigliarono di abortire subito.

In quel momento Giuditta era sola di fronte al medico il quale, senza nemmeno aver valutato lo stato di salute del bambino, la invitò a “liberarsi” di quel problema, come se fosse semplicemente un dente cariato.

Ci rifiutammo però di buttare via il nostro bambino e ci affidammo con tutte le forze a Santa Gianna Beretta Molla perché con la sua intercessione e il suo esempio ci guidasse. I giorni passavano e sotto gli occhi stupiti dei medici la gravidanza proseguiva: senza liquido e senza poter valutare il piccolo.

Grazie all’esperienza e al sostegno del Prof. Giuseppe Noia, riuscimmo a trasferirci al Policlinico Gemelli dove effettuammo dei trattamenti per tentare di valutare lo stato di salute del bambino. Per difendere la sua vita fummo chiamati ad affrontare tante prove, diversi mesi di ospedale, attese e silenzi infiniti, la lontananza dai bambini e soprattutto l’attacco costante e deciso del Nemico che tentava di convincerci che la vita di questo bambino non aveva senso, che era meglio uccidere che accogliere un figlio che di certo sarebbe morto subito e che eliminare nel grembo della madre una creatura innocente fosse una “terapia” indolore per liberarsi di una seccatura.

Dopo circa due mesi arrivò la diagnosi: agenesia renale bilaterale, ovvero l’assenza di entrambi i reni. Fummo informati del fatto che, se fosse riuscito ad arrivare al termine della gravidanza, il nostro bambino sarebbe di certo morto subito non potendo respirare da solo. In quel momento parve che il Cielo si chiudesse sopra di noi. Il dolore, l’incapacità di comprendere, l’angoscia per un figlio sofferente e la paura per un altro parto che si prospettava ancora più difficile sembrò per un attimo soffocarci.

Era giunto il momento della prova, quella prova in cui un cristiano è chiamato a dare ragione della sua fede e nella quale solo la Grazia può sostenerti. Tante persone ci dicevano che eravamo coraggiosi o bravi ad aver scelto di “tenere” questo bambino nonostante tutto, tante altre invece ci reputavano folli, egoisti e incoscienti, ma la verità è che non siamo stati nulla di tutto questo, abbiamo agito semplicemente come agirebbero un papà e una mamma, cioè abbiamo accolto e protetto nostro figlio come un dono prezioso.

Nonostante ogni previsione il bambino cresceva e ogni volta che Giuditta era triste e angosciata lui non mancava di farsi sentire, come a voler dire: “Mamma, io ci sono, sono vivo, sono dentro di te e ti amo!”. La consolazione che derivava da ogni suo piccolo calcetto è stata un’esperienza indescrivibile. La forza della Vita prepotentemente si faceva avanti e ci chiamava ad accoglierla ed amarla.

Fummo chiamati al difficile compito di dare un senso alla vita di questo bambino anche di fronte ai suoi fratellini, che lo attendevano con ansia per abbracciarlo e ai quali abbiamo spiegato che solo per un momento ci saremmo allontanati da lui, perché ci aspettava in Cielo e che lo offrivamo con gioia a Dio per amore di Gesù.

Arrivò quindi il 26 Agosto 2014, giorno stabilito per il cesareo, giorno della nascita al mondo e al Cielo del nostro piccolo Santo. Il personale del Policlinico si presentò aperto e disponibilissimo, ci fu permesso di far entrare lo zio Diacono per battezzare il piccolo appena fosse nato.

Fu consentito a Jacopo di assistere dal corridoio per poter salutare suo figlio e fu permesso ai meravigliosi operatori della Quercia Millenaria Sabrina e Carlo Paluzzi, di poter tenere la mano di Giuditta nella sala operatoria durante tutto l’intervento. Alle 10 e 40 un pianto pieno di vita ruppe il nostro silenzio e la nostra angoscia: “E’ un maschio!”.

Era nostro figlio, era Gregorio ed era vivo! Fu subito visitato e ne fu appurata l’inaspettata vitalità, fu quindi battezzato con grande consolazione e gioia di noi tutti, poi fu posto tra le braccia del suo papà che con amore e tremore lo contemplò come un mistero infinitamente più grande di noi.

Poi rientrato in sala parto fu il momento della mamma che poté baciarlo, tenerlo con lei e cantargli una ninna nanna, come aveva fatto per gli altri suoi figli. Fu anche inaspettatamente consentito ai parenti di conoscerlo e salutarlo. Contrariamente ad ogni aspettativa la nostra vita con lui durò ben 40 minuti, durante i quali fu amato e coccolato. Lo pregammo di intercedere per noi e per i suoi fratelli e senza che ce ne accorgessimo, dalle braccia del suo papà terreno passò a quelle del Padre Celeste.

Santa Gianna Beretta Molla

Questa fu la vita che Dio aveva previsto per il nostro Gregorio e che noi genitori gli abbiamo semplicemente lasciato vivere, una vita che ha riempito il cuore di tante persone e che con nostro grande stupore continua a fare. Gregorio è passato per questa terra e ci ha mostrato con la sua santità la via del Cielo; è passato nelle nostre vite con la forza di un guerriero mostrandoci che i piani del Signore sono piani di Amore. Gregorio è stato festeggiato dalla Chiesa come un Santo, le campane hanno suonato a festa per lui, la santa Messa che abbiamo celebrato è stata quella degli Angeli, nella cui compagnia ora si trova per l’eternità. Il nostro cuore è stato consolato ed è in Pace, nonostante la mancanza fisica che inevitabilmente soffriamo.

Questo non sarebbe stato possibile se quel 3 Aprile del 2014 avessimo deciso che la vita di Gregorio non era abbastanza importante per proseguire, se Giuditta avesse deciso che il suo grembo, invece di essere la culla che accoglieva e nutriva suo figlio, sarebbe diventato la sua tomba. La vita di Gregorio è un lume e come tale non possiamo tenerlo sotto il moggio: è per questo che abbiamo deciso di condividere la storia del nostro piccolo santo con quanti vorranno.»

Jacopo e Giuditta Coghe

(Fonte: http://www.laquerciamillenaria.org/)

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«(…) Andare davanti allo specchio e dire – quanto sono bella – potessi fare pure schifo. Perché? Mo ve lo spiego io!»

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 01/03/2017

Giastin, sorriso di Dio. L’amiotrofia spinale di cui è stata affetta dalla nascita non le ha impedito di sorridere ogni giorno alla vita e al Cielo, insieme con sua sorella Rosaria (già in Cielo al momento dell’interista) e a suo fratello Cosimo, affetti dalla sua stessa malattia.

I loro genitori sono stati conquistati dal loro entusiasmo per la vita, ancora oggi felici di aver ospitato in casa tre angeli, che non hanno mai messo piede a terra, perché li avevano già messi in Cielo!

«Per iniziare una buona giornata bisogna addormentarsi prima col sorriso, poi svegliarsi la mattina, andare davanti allo specchio e dire – quanto sono bella – potessi fare pure schifo, quanto sono bella. Perché? Mo ve lo spiego io.

Nella creazione si dice che Dio ci ha creati a sua immagine, allora io penso questo, se noi diciamo che siamo brutti, offendiamo Dio che ci ha fatti a sua immagine.»

Al suo funerale (circa quattro anni dopo questa intervista) preparato da Giastin come il giornod ella sua festa più bella, in cui si sarebbe realizzato il suo desiderio più grande, quello di mettere ali per volare in Cielo, c’è stato un uomo che, sconvolto, ha visto in chiesa al momento dell’offertorio, degli angeli prendere il corpo di Giastin, consegnarlo a Maria e Maria a Gesù e Gesù lanciarla poi in alto e consegnarla al Padre.

Quando la mamma seppe di questa visione, qualche giorno dopo, impallidì: era la storia che lei si era inventata per mettere a letto i suoi figli e consolarli quando le chiedevano come sarebbe stato il giorno della loro “partenza al Cielo”.


Qui, mamma Carolina racconta e testimonia la gioia che ha ricevuto dai suoi tre angeli: Rosaria, Giastin e Cosimo.

«Dovrebbe essere il contrario, un genitore che porta i figli a Dio. Ma sono stati loro a portarmi a Dio.»

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La storia di Emilia che non abortì

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 07/02/2017

emilia_01

“Lei deve abortire signora. Non ha nessuna alternativa purtroppo.”

emilia_02Queste furono le durissime parole dei medici per la terza gravidanza di Emilia che sbiancò e si appoggiò al braccio del marito.
Continuarono: “È malata ai reni e il suo cuore è appeso ad un filo… rischiate di morire entrambi. Nelle sue condizioni non riuscirà a portare a termine la gravidanza, il suo bambino, per il quale vuole sacrificare la sua vita, morirà“.

La salute di Emilia cominciò a vacillare sin dalla seconda gravidanza; era soggetta a fortissimi mal di schiena che la costringevano a letto per giorni interi. I medici dicevano che aveva i reni compromessi.

Emilia non prese in considerazione l’idea dell’aborto nemmeno un attimo. Sì affidò a Dio.

emilia_03Quel bambino nacque il 18 maggio 1920 in Polonia col nome di Karol Josef Wojtyla.

Emilia visse ancora per nove anni sopportando il dolore con fede, col sorriso, senza parlare mai dei suoi disturbi.

Il resto della storia lo conosciamo.

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“Mia madre si sente orgogliosa di aver difeso la vita.”

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 12/11/2015

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Padre Antonio Vélez Alfar aveva il volto rigato dalle lacrime mentre ripeteva queste parole. Perché sono parole che lo facevano viaggiare nel tempo e, più precisamente, alla drammatica storia di sua madre che qualche anno prima gli aveva raccontato di essere stato concepito in uno stupro.

Una donna di fede.

Il sacerdote colombiano, parroco nella provincia di Chubut (Argentina), ha deciso di testimoniare la sua storia in seguito a una sentenza della Suprema Corte di Giustizia argentina che ha dichiarato l’aborto non punibile in questi casi.

“Mia madre” – ha raccontato il sacerdote – “era una donna di fede, devota e praticante. Diceva che, nonostante le terribili circostanze, portava nel suo grembo il miracolo di una nuova vita, una vita che Dio le aveva dato e che, per le sue convinzioni, non poteva abortire. E che se Dio aveva permesso tutto ciò, doveva avere un senso”

Stuprata dai colleghi.

La madre di Padre Antonio venne stuprata a ventisette anni da vari colleghi di lavoro, che le tesero una trappola durante una festa, la drogarono e abusarono di lei ripetutamente.

Nel dolore di non sapere chi fosse il padre del bambino, la donna venne obbligata dalla sua famiglia a sposare un vedovo che, dopo il matrimonoi cominciò a maltrattarla continuamente.

Essendo impossibile separarsi in quel contesto, la donna rimase col marito e col secondo figlio, in quanto Antonio era stato mandato dai nonni.

La storia della madre.

Racconta Padre Antonio: “Un giorno, siccome mia nonna mi diceva sempre di chiamare mio padre nonno, le chiesi come potesse essere che fosse al contempo mio padre e mio nonno.

Pe_Antonio_01Questo portò a una riunione con mia madre, che mi raccontò ciò che era successo. Mi disse che molti le dicevano di abortire; altri le suggerivano addirittura di vendermi, o di darmi in adozione, e c’era anche gente interessata a me. Fu molto duro per me sapere ciò, non avevo che dieci anni.

Perché proprio a me?

Un giorno Antonio si volle sfogare con Dio. “Andai in chiesa a protestare con Dio: ma perché questo è capitato proprio a me? E mentre gridavo, un sacerdote si avvicinò e mi disse che stavo facendo la domanda sbagliata: ‘Non chiedere perché ma per quale ragione’ (1). Proprio in tutta quella situazione, il Signore mi stava chiamando per fare grandi cose.”.

Sarai uno strumento del Signore.

Questo sacerdote disse al giovane Antonio che Dio scrive diritto sulle righe storte, e che sarebbe stato uno strumento del Signore. Poi gli lesse il passo di Geremia in cui Dio lo chiama ma lui resiste e il Signore gli dice: ‘Non ti preoccupare, farò tutto per te’.

“Quella conversazione mi segnò profondamente e quel sacerdote fu come un padre per me.” Dopo di ciò Antonio divenne catechista, per arrivare alla scelta del seminario, per servire il Signore come sacerdote.

(1) N.d.t. – In portoghese c’è un gioco di parole intraducibile: “Não pergunte porquê, mas para quê” che significa per l’appunto: non chiedere perché ma per quale ragione.

(Tradotto dal portoghese dall’originale pubblicato su: http://pt.aleteia.org/)

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Non vedi alternative all’aborto? Al C.A.V. ce ne sono

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 11/10/2015

CAV_01Entrano insieme, giovanissimi, lei con il viso pulito, semplice, un vestitino leggero, nascosta dietro di lui. Una cosa non si riesce a coprire: un pancione in cui da 7 mesi c’è un bambino. Sono Irina e Dimitri (nomi di fantasia), 18 anni lei, 19 lui, vengono dalla Moldavia. Lei non parla l’italiano, non ha documenti, soprattutto è lontana dalla famiglia, con un figlio in arrivo. Lui racconta che qui non hanno nessuno, che la sua fidanzata non è riuscita a farsi fare nemmeno un’ecografia, tantomeno altre visite specialistiche per la gravidanza (non sanno neanche quali siano…). Alla Asl sono stati chiari: senza documenti non possono fare nulla. È per questo che sono arrivati qui, al Cav (Centro assistenza alla vita), dove i volontari cercano di sostenere famiglie e ragazze madri. Persone che non riescono a vedere alternative all’interruzione della gravidanza trovano una mano tesa pronta a far loro considerare altre possibilità.

CAV_02I due fidanzati hanno già deciso di tenere il bambino e di sposarsi appena nascerà. Ma hanno bisogno di aiuto. “Sono molte le coppie che arrivano da noi in queste condizioni – spiega Francesca, responsabile del Cav Ardeatino che si appoggia alla parrocchia di S.Giovanna Antida, a Roma – per questo siamo riusciti a procurarci una macchina per le ecografie. Così insieme a dottori volontari riusciamo a dare anche un minimo di sostegno medico a chi ne ha bisogno”.

I Centri di aiuto alla Vita sono associazioni di volontari, apartitiche, di ispirazione cattolica, considerati come il braccio operativo del Movimento per la Vita. L’obiettivo è quello di aiutare le donne alle prese con una gravidanza difficile o indesiderata, oltre che sostenere giovani madri prive di mezzi o sprovviste delle capacità necessarie per fornire le cure al figlio, in modo da scongiurare l’aborto.

CAV_03Le storie che si possono ascoltare in questo centro sono davvero delle più diverse. Come quella di Celestine, dello Zimbawe, ormai a Roma da 15 anni. “Poco dopo essermi sposata sono rimasta subito incinta. Io e mio marito eravamo felicissimi, lui ha un lavoro, ce la potevamo fare”. Ma quando il piccolo ha due mesi scopre di essere di nuovo in dolce attesa. “Mi è crollata la terra sotto i piedi! Come avrei potuto fare con due bambini così piccoli? Ci sarebbero bastati i soldi? Cosa avrebbero pensato le persone intorno a noi? Non sapevo come dirlo a mio marito… I miei genitori ancora non sanno della mia gravidanza!”. Tramite un’amica è venuta a conoscenza del Cav, che le ha fornito sostegno psicologico per farle accettare il bambino come un dono, perché “un figlio lo è sempre”, dice lei. Uno schiaffo alla cultura dell’egoismo che sembra dominare la nostra società.

Francesca ci dice che spesso diventare madre non è solo un problema economico o sociale per le donne, a volte “hanno bisogno di sentire che hanno qualcuno vicino, che possono essere sostenute”. Mentre ci parla arriva una telefonata: è una ragazza che chiede aiuto, perché tutti intorno a lei, famiglia, ragazzo, amici, le fanno pressioni per farle interrompere la gravidanza. Ipotesi che lei non vuole considerare. Così fissano un primo appuntamento in cui cominceranno a darle il sostegno necessario. “E’ giusto che ogni donna possa esprimere liberamente la propria vocazione alla maternità – commenta Francesca – non è giusto che debba vivere l’esperienza traumatica dell’aborto, soprattutto contro la sua volontà”.

CAV_04Alle spalle dei Cav, diffusi su tutto il territorio nazionale, non ci sono interessi economici, lobby o partiti, c’è solo la volontà di sostenere la Vita; quella del nascituro, della mamma e anche quella di chi ha bisogno di riprendersi dalle gravi conseguenze dell’aborto. Per realizzare tutto ciò è necessaria la collaborazione di tutti, dai benefattori anonimi, che donano denaro, alimenti e corredini per i bimbi, ai medici, gli psichiatri e gli psicologici. Tutti pronti a mettersi a disposizione senza chiedere nulla in cambio. Se non il sorriso di una madre e della sua creatura, felici di non aver ceduto alla tentazione della morte.

(Fonte: http://www.interris.it)

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“Contraddizioni”

Posted by fermenticattolicivivi@gmail.com su 20/05/2015

Un corto dedicato a tutti i bambini non nati.

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